Frieze New York. Ovvero come affondare l’Armory
Dopo il profluvio di New York Updates, con le proverbiali “bocce ferme” facciamo un bilancio di come è andata la prima edizione newyorchese di Frieze. La risposta secca è: benissimo. E potrebbe essere una pessima notizia per la decana Armory.
Come a Venezia, un battello-taxi ci ha portato a Frieze New York, insediata su Randall’s Island, dove una grande e bianca tensostruttura ideata dal collettivo di architetti SO-IL conteneva più di 180 gallerie d’arte contemporanea. Ariosa, luminosa e ampia – più user-friendly della struttura che ospita Frieze Londra, e più attraente della fiera dell’Armory, – aveva una pianta sinuosa che rendeva lo spazio movimentato, pur senza distrarre dalle opere esposte. Nello stesso tempo, era una struttura che emanava un’idea di solidità; persino dalle porte dei bagni, che erano in legno massello con pesanti maniglie in ottone. Questo per dire che Frieze New York è stata minuziosamente calibrata, al fine di soddisfare le esigenze di un’ennesima fiera in un momento storico complicato come l’attuale.
Alla fine della giornata di preview, tutti i galleristi erano doverosamente entusiasti. Il sentore era che le vendite fossero andate alla grande. Per alcuni, ciò era eclatante: Kordansky Gallery da Los Angeles, ad esempio, che ha scelto di mostrare solo un artista nel suo ampio stand, ha venduto durante la preview tutti i quadri di Jon Pestoni. Sean Kelly Gallery, che aveva registrato incassi a ben sette cifre all’Armory, si è dichiarata felicissima anche di questa fiera, benché le due partecipazioni fossero così a ridosso l’una dell’altra. Un altro gallerista (questa volta italiano), al quale abbiamo chiesto se avrebbe partecipato volentieri a un’altra edizione di Frieze New York l’anno prossimo, ha risposto che sarebbe pronto a rifarla anche… domani. Comunque sia andata, una gallerista londinese conosciuta per la sua franchezza e schiettezza, ha sentenziato: “Non si poteva non partecipare a Frieze New York”.
Le gallerie del nord Italia hanno condiviso il parere, essendosi presentate a questo appuntamento addirittura in sette: Massimo De Carlo, fedele al suo alto standard, Kaufmann Repetto, Galleria Continua, Massimo Minini, Giò Marconi, Franco Noero e Raffaella Cortese. Inoltre c’era Alfonso Artiaco, arrivato da Napoli; mentre l’unica presenza romana è stata la T293, anch’essa partenopea d’origine, che si è dimostrata una delle più innovative della fiera, con un’installazione di Calla Henekel e Max Pitegoff, fatta di cocktail avanzati da una festa e abbandonati per terra – in realtà bicchieri dal loro locale a Berlino, riempiti di resine colorate al posto di alcol, mixer e ghiaccio.
La fiera è stata all’altezza delle aspettative, senza che si siano corsi troppi rischi e senza grandi sorprese, come in fondo era prevedibile per una prima edizione: tutto era perfettamente vendibile e di buon livello, con poche cose eclatanti o audaci. La maggior parte dei lavori esposti erano dipinti, sculture e fotografie che sembrano dipinti – come quelle di Wolfgang Tillmans e Walead Beshty. Per il resto, fotografia di altro tipo e video erano rari. Un’eccezione rilevante era il video di Marie Lorenz da Jack Hanley Gallery, in cui l’artista naviga per le acque di New York in una barchetta home-made (non si tratta di una performance isolata, ma di una pratica insolita, che la occupa da un decennio).
Spiccava la sublime installazione fatta da Zwirner di eccellenti opere di Flavin, McCracken, Judd e Bell, che rendeva il suo stand più simile alla sala sul Minimalismo di un museo. La galleria Salon 94 ha svelato l’opera Trabantimino della giovane artista di Detroit, Liz Cohen, vera e propria fusione, non soltanto nel nome, di una Trabant e di una Chevrolet El Camino. Risultato di dieci anni di customizzazione e ibridazione operata da lei stessa, con estrema attenzione ai minimi dettagli sia estetici che funzionali, l’automobile della Cohen è metamorfica: si allunga del doppio e si ritrae, si solleva sia nell’avantreno che nel posteriore, e in più è a tutti gli effetti un’auto funzionante e utilizzabile.
Come sempre attento al pubblico, in presenza di Rikrit Tiravanija Gavin Brown ha cucinato assieme all’attore Mark Ruffalo, che ha colto l’occasione per dare visibilità al problema del hydrofracking, metodo di estrazione minerale che causa l’inquinamento delle falde acquifere. Accanto ai fornelli si ergeva un’enorme scultura di Tiravanija, consistente in salsicce di metallo appese a due carrelli, con sullo sfondo il grande dipinto galleggiante di Laura Owens, fatto di sette tele eteree tra loro unite da accenni di griglie in legno.
Non è stata una sparatoria all’Ok Corral in cui una fiera ha fatto fuori l’altra, come ci si poteva immaginare succedesse tra l’Armory e Frieze. Visto che entrambe hanno riscosso successo, si direbbe che almeno nel prossimo futuro ci sia spazio per entrambe.
Daniela Salvioni
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