Ecco come muore il mercato dell’arte in Italia
L’Iva cresce, e non solo in Italia. Acquistare opere d’arte nel nostro Paese significa pagarci oggi il 22% e il 10% per l’importazione contro aliquote inferiori nella vicinissima Svizzera, in Germania e nel Regno Unito, senza contare gli Usa, dove la Sales tax sull’arte è presente in percentuali contenute. La Francia intanto si prepara ad aumentare l’Iva sull’importazione portandola dal 7% al 10%, regalando così agli inglesi una fetta di mercato, che va ad aggiungersi alla loro già consistente leadership (68% del valore delle importazioni verso l’UE).
Se l’atteggiamento fiscale francese stupisce, considerando le politiche favorevoli per il mercato dell’arte, simile per mobilità a quello dei capitali, nulla di nuovo sotto sole in Italia, dove si continua a operare non soltanto al di là di qualsiasi analisi di “concorrenza fiscale” (per cui una tassazione più bassa orizzontalmente favorirebbe l’arrivo di nuovi capitali e insediamenti produttivi), ma anche al di qua di un serio ragionamento per attrarre nicchie di mercato. Mentre infatti siamo convinti che la leva fiscale non sia uno strumento – da solo – capace di accrescere le donazioni private alla cultura (finora al 19% di detrazione Irpef o deducibili nei limiti del 10% del reddito, semplificando al massimo), molto di più potrebbe se applicata al mercato della compra-vendita di opere d’arte (si pensi al collezionismo imprenditoriale, assimilato oggi alle spese di rappresentanza).
Nel primo caso ci rivolgiamo alla collettività e sono necessari lenti processi di crescita e partecipazione per alimentare l’“individuale collettivo”, nel secondo il target sono i collezionisti, un pubblico già interessato, guidato spesso da intenzioni speculative e dunque sensibile al prezzo e al risparmio. Il circolo virtuoso parte da qui e non viceversa: creando una sana competitività fiscale nel mercato artistico si alimentano flussi di capitali a cui fra l’altro corrisponde – a differenza del settore finanziario – un mercato “reale” (fiere, biennali, aste, gallerie ecc.) con tutto il suo indotto di attività intellettuali e artigianali. Una mobilità crescente tende a corrispondere a un aumento di attenzione della collettività, con uno sguardo nuovo rispetto alle due facce della medaglia: tasse pagate/ tasse risparmiate vs. patrimonio culturale tutelato e promosso.
Come se non bastasse, a frenare lo sviluppo della circolazione delle opere d’arte non c’è soltanto un’imposizione fiscale pesante (senza contare l’effetto cascata del “diritto di seguito”) ma anche l’istituto giuridico della “notifica”. Introdotto con la finalità di evitare fughe dal nostro Paese di opere di “rilevante interesse culturale”, è diventato uno strumento che nel tempo ha rallentato le transazioni, riducendo il valore commerciale delle opere stesse, creando ritardi, incertezze e non pochi disagi agli uffici ministeriali periferici incaricati delle esportazioni. A fortiori la legge sulla tutela aveva previsto il limite dei cinquant’anni per la libera esportazione, un termine che con le lentezze amministrative di oggi fa “invecchiare” ogni anno molte opere di artisti “contemporanei”.
Irene Sanesi
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #16
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