Mid-career alla riscossa. Ninì Santoro
Con Ninì Santoro e il Gruppo Uno – di cui è stato uno dei protagonisti – la scultura italiana raggiunge nuovi risultati, legati a un’astrazione rigorosa e sintetica. Il suo lavoro è complesso e consiste anche nell’incisione e nella pittura. “Sono fuori dal mondo dell’arte e quindi dal mercato”, racconta. Intanto nel suo studio romano prosegue, quotidianamente, la ricerca sugli statuti primari del fare scultura e dell’incisione, tra forma e segno.
“Gli anni Sessanta erano una cosa notevole. Eravamo innamorati del gruppo Forma 1, eravamo contro il figurativismo di Guttuso e degli altri. Eravamo spiantati, con la voglia di spaccare totalmente il mondo”. Pasquale – detto Ninì – Santoro (Ferrandina, 1933) è tra i padri nobili della scultura astratta in Italia, grazie a un lavoro di ricerca partito sul finire degli Anni Cinquanta e l’avvio del decennio successivo.
È del 1962 la prima mostra “non ufficiale” del Gruppo Uno – collettivo a cui, oltre a Santoro, hanno aderito Gastone Biggi, Nicola Carrino, Nato Frasca e Achille Pace –, ospitata in un’autoscuola romana. Poco dopo, la prima mostra ufficiale, alla galleria Quadrante di Firenze, con testi di Palma Bucarelli, Nello Ponente e Giulio Carlo Argan, che è stata la vera guida di un po’ tutti i componenti del gruppo. “Argan è stato il filo conduttore di tutto, di tutta la mia vita”, ricorda Santoro. “Mi consigliò dapprima di trasferirmi a Lione per studiare le texture in un museo della città, poi mi fece vincere una borsa di studio a Parigi, dove ho vissuto per sei anni. È stata quella la mia scuola, lì ho respirato un’energia travolgente per le ricerche legate all’arte astratta”, aggiunge mentre nel suo studio romano è intento a commentare una serie di sue opere informali degli Anni Cinquanta. Proprio Argan, nel testo della mostra del 1962, avverte che “lo scopo della ricerca comune è di ridurre al minimo, possibilmente all’unità, l’immagine prima e l’ultima, il primo atto d’esistenza e il limite estremo del pensiero, unificando i due termini in una medesima immagine che potremmo chiamare continua o infinita. In tutti è chiara una volontà costruttiva che non s’identifica, come nei primi costruttivisti, con uno schema razionale: la ragione, come qualità tipicamente umana, non ammette schemi e implica nel suo processo”.
È il superamento dell’Informale, pertanto, uno dei punti cardinali della ricerca di Santoro – e di altri membri del gruppo, come Carrino –, che affronta attraverso un triplice processo: pittorico, calcografico e plastico. È l’acciaio il materiale prediletto della sua indagine, che plasma e scompone a suo piacimento con grande libertà, partendo dall’osservazione ravvicinata della natura, poi declinata con processi autonomi e mai figurativi. Piani che si compenetrano e che s’incontrano per dar vita a una linea che conduce a riflettere sugli statuti stessi della forma e delle sue infinite e sfaccettate prospettive. I titoli tradiscono il legame con la natura, come Foresta pietrificata del 1967, commissionatagli da Palma Bucarelli per la “sua” Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma; o Allucinazione semplice di un paio d’anni prima, in cui una serie di fasce ferrose orizzontali si fondono con un ritmo studiato.
C’è però nella scultura di Santoro un approccio non scientifico, come egli stesso ama ribadire, prendendo le distanze da molte esperienze italiane e straniere coeve a determinate sue opere. Chiaramente emergono connessioni con alcune indagini legate al Minimalismo, ma in Santoro prevale un lato poetico che gli deriva da un’assidua frequentazione con quello straordinario mondo ben sintetizzato in uno scatto che lo ritrae di fronte a Giuseppe Ungaretti nel 1968 in occasione della sua mostra da Grafica Romero a Roma. Fu lo stesso poeta a presentargliela con un testo: “Mi sono persuaso che Santoro è un artista, un artista nato, un artista che va di attimo in attimo, progredendo, cocciuto e illuminato, stravagante e osservante stretto della regola, cercandosi la propria strada, un artista che finalmente, credo, abbia trovato la strada che gli darà quelle maggiori soddisfazioni alle quali un artista vero possa ambire”.
Si erano conosciuti nel 1958, quattro anni dopo Santoro era già alla Biennale di Venezia. Lavori in importanti collezioni, una fortuna critica che va da Argan a Maurizio Calvesi e Leonardo Sinisgalli, a Nello Ponente e Filiberto Menna, giusto per citarne solo alcuni: è questo il percorso di Santoro. Proprio Menna in un suo testo sottolineava “il senso di una ricerca gelosa dell’autonomia strutturale dell’opera, […] nello stesso tempo disposta ad accogliere le suggestioni provenienti dall’universo fenomenico e dalla storia degli uomini”.
Lorenzo Madaro
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