Brexit. La grande opportunità
Piaccia o non piaccia l’esito del referendum che si è svolto ieri nel Regno Unito, ora è un fatto. E il fatto è che lo UK, i suoi abitanti, hanno scelto a maggioranza di lasciare l’Unione Europea. Quale potrebbe essere la reazione del nostro Paese? Quali opportunità si aprono per il settore creativo e culturale? Ecco come la pensa Stefano Monti, in questa lettera aperta a Renzi e Franceschini.
Gentile Presidente del Consiglio Matteo Renzi, Gentile Ministro della Cultura Dario Franceschini,
ci rivolgiamo a voi, e implicitamente a tutto il mondo della cultura italiana, perché le potenzialità positive che i recentissimi avvenimenti politici ed economici non vadano, ancora una volta, sprecate.
L’uscita della Gran Bretagna produrrà, e già sta producendo (malgrado le numerose strategie preventive), un periodo di incertezza e tendenziale instabilità su molteplici aspetti della vita internazionale: dalle ricadute dirette sulle transazioni di import-export alle dinamiche più strettamente connesse agli aspetti valutari, dalla ricollocazione di investimenti in zona euro all’incertezza politica legata al reale futuro dell’Unione.
Bisogna guardare questo periodo però con grande lucidità, e cercare di delimitare con attenzione le strategie, abbandonando retoriche comunicative e un vago senso di onnipotenza che talvolta, noi italiani tutti, mostriamo di avere.
Partiamo da un assunto fondamentale: con l’uscita della Gran Bretagna, ma soprattutto con l’uscita di Londra, l’Europa si trova oggi ad affrontare su molti mercati un vuoto di leadership. Questo porterà, ovviamente, a una spinta competitiva tra i Paesi Membri per riuscire a guadagnare il primato che finora era tacitamente e innegabilmente rappresentato dal Regno Unito.
L’importante è, a nostro avviso, non precipitarsi su tutte le zone vuote come una corsa all’oro affannata e fortunosa, ma procedere con lucidità guardando con attenzione alle potenzialità che la nostra Italia presenta.
Sarà difficile, ad esempio, competere con Germania e Francia per l’attrazione di FDI (Investimenti Diretti Esteri): la burocrazia del nostro Paese, le protezioni sindacali, il livello di incertezza legato ai tempi della giustizia, lo stereotipo di scarsa affidabilità (che, pur se costantemente smentito nei rapporti concreti, ha ancora molta forza sull’immaginario) rendono l’Italia meno attraente per l’apertura di nuove imprese.
Ci sono invece temi che ci vengono riconosciuti globalmente, e sui quali negli ultimi anni abbiamo avviato operazioni più prettamente di branding: parliamo del comparto food, delle eccellenza italiane nella biochimica, del settore moda, ma parliamo principalmente dei mercati dell’arte e della cultura.
Nell’immaginario mondiale è su questi temi che l’Italia si è affermata come leader di mercato, ed è grazie a questi temi che trova posizioni di discreto successo all’interno delle classifiche di awareness internazionale. Questo è rilevante, perché il Brexit non è altro che l’ultima dimostrazione di come siano gli stereotipi a determinare a volte delle scelte collettive.
Ma sul comparto non vantiamo soltanto un riconoscimento internazionale: abbiamo una grande varietà d’offerta, rappresentata sia dal nostro inestimabile e inalienabile patrimonio, sia dalla grande diffusione su tutto il territorio nazionale di industrie culturali e creative, di giovani e non giovani talenti, di persone di esperienza che costituiscono un tessuto produttivo a grande valore aggiunto, in grado, realmente, di competere sui mercati internazionali.
Eppure, sinora, a fronte di questi rilevanti fattori critici di successo, abbiamo collezionato ben poco in termini di mercato internazionale. Pensiamo al mercato dell’arte, in cui contiamo uno zero-virgola-qualcosa all’interno del mercato mondiale. Ragioni di tali risultati sono in parte da attribuire alla connessione tra capitali finanziari e quelli di investimento in arte (che sinora trovavano come naturale interlocutore il mercato londinese) ma anche una forte arretratezza di policy nella gestione del mercato artistico.
In questo senso abbiamo una delle posizioni più conservative d’Europa, con una visione dell’arte come bene di lusso e di status, appannaggio di pochi eletti che possono fregiarsi del possesso di capolavori, salvo poi tenerseli ben nascosti per evitare quella prassi di notifica che, per come è costruita e per come è amministrata, arreca soltanto danni al nostro Paese, favorendo il sommerso, l’illecito e spaventando i mercati.
Abbiamo una politica fiscale anti-democratica, elitaria, che declassa i player del mercato artistico a meri commercianti, venditori di cose, e che esalta invece coloro che agiscono nel settore in modo non professionale.
Abbiamo un sistema dell’arte vecchio, un ministero incerto, un approccio ambiguo al settore privato (adulato come mecenate ma disprezzato come attore economico).
Questi sono i limiti concreti, visibili, percepiti del nostro mercato. E sta a voi prendervi la responsabilità e l’onore di avviare un percorso che in tempi brevi riesca a restituire all’Italia un ruolo che potrebbe tranquillamente ricoprire (per brand, per set d’offerta, per risorse umane a disposizione, per professionalità) e che trova nella normativa e nella struttura politica l’ostacolo più grande.
Può sembrare uno scenario secondario rispetto a quanto è in gioco, ma non è così. Il mercato dell’arte è ricchezza, è l’opportunità di far atterrare sul nostro Paese nuovi investitori nel medio periodo, è un settore fortemente globalizzato e che produce notevoli impatti in termini di reddito e di occupazione.
Quelle proposte certo non sono scelte facili, e troveranno le resistenze di un “mondo della cultura” che conosciamo, e che rimane ancorato alle proprie posizioni da tanto, troppo tempo.
Ma questo è il momento di cambiare.
Stefano Monti
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati