The video is back. Su Art Basel Unlimited
Il video è tornato. Questa è la prima constatazione che emerge nel percorrere la sezione Unlimited di Art Basel 2017. Tutti se ne sono accorti e tutti lo confermano, anche se, a ben guardare, i video sono soltanto una decina sulle 76 installazioni ambientali destinate alle grandi collezioni, se naturalmente non contiamo tutti quegli degli artisti storici.
Perché la presenza del video appare preminente nella sezione Unilimited di Art Basel? Da una parte perché questa decina evidenzia che è in corso una nuova ricerca sul video legata a un approccio filmico che indaga sul tempo stesso della sua fruizione/produzione. Dall’altra perché rivela che il collezionismo di video, che sembrava negli ultimi anni una tendenza rallentata – dopo i primi neofiti degli Anni Novanta e i suoi difensori degli Anni Zero –, torna a farsi sentire.
La questione è però più complessa e deve essere indagata anche alla luce della recente edizione della Biennale di Venezia, che rappresenta la crisi irreversibile della mostra a tema, e di documenta 14, dove è prevalsa una riflessione sul possibile ruolo del museo/storia/archivio nel mondo post-ideologico piuttosto che un focus sulle nuove tendenze. In tutte e due le manifestazioni appena citate è evidente che sta per avvenire una cesura forte con l’attuale sistema dell’arte, il quale non potrà più basarsi sulle riscoperte degli artisti e quindi sul cercare nuovi mercati ancora non saturi.
LE RAGIONI DI UNA RISCOPERTA
La rinnovata attenzione al video va connessa pertanto ad aspetti differenti. Uno è sicuramente la possibilità per chi lavora con esso di toccare tematiche generali come quella del ruolo delle immagini in movimento nell’era della fruizione streaming, del digitale, delle fake news e e dell’on demand.
Ad Unlimited il contrasto fra tempo della fruizione e tempo narrativo è alla base di opere come MIG 29 Soviet Fighter Plane and Clouds di Cory Arcangel – proiezione su tre schermi di elementi scorporati da un videogioco degli Anni Novanta – o di Ragnar Kjartansson, in cui la messa in scena su quattro schermi di un dramma teatrale è portato alle estreme conseguenze tramite la presenza ieratica del narratore/artista, del microfono che irrompe nella scena, dei mari di stoffa ecc. In altri casi il tempo narrativo più che deflagrato è sublimato, come nel lavoro di David Claerbout, The pure necessity (2016), in cui un loop infinito apre a significati inediti un frammento del famoso video d’animazione della Disney Il libro nella giungla, e in quello di Park Chan-Kyong, Citizen’s Forest (2016), in cui espande su tre schermi l’azione di alcuni abitanti di una foresta inducendo una analisi introiettata della tensione tra singolo e comunità, natura e cultura.
Un altro aspetto da considerare è che la narrazione espansa, proposta da questi video, diviene centrale in Unlimited proprio perché amplificata dall’agire su di essa da parte delle installazioni presenti. Queste ultime, infatti, molto lontane dalla dimensione spettacolare e immediata delle proposte di qualche edizione, privilegiano una dimensione introspettiva. Questo è evidente con l’installazione fotografica di Adrian Piper Food for the spirit, 1971/97, ma anche con il grande disegno di fulmini e tuoni della famosa filmmaker Tacita Dean. Le storie contraddistinte da atmosfere sussurrate possono trasformarsi anche in narrazioni potenziali, proponendosi come dispositivi da agire: il lavoro del 1978 di Helio Oiticica – un cubo formato da griglie di metallo di colori differenti che si rivela essere una gabbia che lo spettatore può modificare decidendo se essere “in” o “out” –, l’opera di Massimo Bartolini del 2013/2017 costituita da una strada di macerie in bronzo da osservare o “performare”, e il dirigibile di Cris Burden. Queste, ma anche lo slideshow di immagini della fine Anni Sessanta di Boris Mikhailov, l’orizzonte del giovane Francesco Arena creato con una trave di metallo sospesa che si fa base per una striscia di terra, l’installazione di Sue Williamson, Message from the Atlantic passage del 2017, e ancora il dialogo misterioso tra un mobile e una lampada di Tobias Rehberger, rendono evidente l’esigenza attuale di lavorare su una narrazione interiorizzata più che su una scultura impositiva.
IL SUONO COME SNODO TEORICO
La novità che si profila per il futuro e che sembra indicata dal caso di Unlimited – oltre che dalle recenti mostre internazionali – è che nell’ambito delle immagini in movimento l’attenzione sul dialogo tra “oggetto osservato” e “osservatore” è nuovamente affrontato partendo dallo stimolo del suono. Il suono adesso per molti artisti – tra i precedenti illustri di dieci anni fa possono essere citati Elisabetta Benassi, Douglas Gordon, Annika Larson, Yang Fudong – è fondamentale per concretizzare la coscienza della fruizione diretta del qui ed ora.
In alcuni casi il suono si fa presenza concreta facendo assumere alla sequenza delle immagini la funzione che aveva la colonna sonora all’interno del linguaggio cinematografico di molti anni fa, ovvero di guida evocativa più che indicativa. Quest’approccio in The Airport (2016) di John Akomfrah dà organicità di visione alle storie su tre schermi in cui soggetti di altri tempi come l’astronauta, la donna pensierosa e il dandy si trovano ad attraversare architetture desolate in Grecia.
Allo stesso modo, Arthur Jafa con Apex (2013) trasforma, per mezzo del suono che varia nella ripetizione, andando oltre la musica elettronica, uno slideshow di immagini in un’esperienza video avvolgente che condensa e trasforma l’immaginario legato alla cultura “black”. Mentre Julian Charriere e Julius von Bismarck in Objects in mirror might be closer then they appear del 2016-17 proiettano in due stanze divise da un vetro semi-riflettente la stessa immagine di una soggettiva macro di un occhio di un animale che si alterna alla sfera della terra ripresa dalla luna. Yuri Ancarani con The Challenge del 2016 e una colonna sonora realizzata per l’occasione fa coesistere varie immagini girate in Qatar – da un gruppo di motociclisti a persone che sostano in un albergo, dal falconiere al proprietario di una fuoriserie e di un leopardo – facendo riflettere sul tema della gabbia e del dialogo animale-macchina.
PARTECIPAZIONE E COLLETTIVITÀ
La verità è che l’interesse per il video non è mai venuto meno. Semplicemente, qualche anno fa, essendo usato come mezzo per concretizzare un’idea – come per Martin Creed – o per destrutturare l’immagine frontale per riflettere sul concetto di memoria – come nel caso di Alfredo Jaar – era percepito come una cosa “altra” mimetizzandosi con gli altri medium. Invece, con questi video-narrazioni presenti ad Unlimited assistiamo al fluire di immagini utili a riflettere su cosa consideriamo oggi per racconto “attendibile” e universale. Si tratta, infatti, di approcci volti a indagare come i temi della partecipazione individualizzata e dell’individualizzazione della collettività possono essere risolti e superati su un piano di discussione differente.
In particolare tre opere di artisti storici potrebbero aprire ulteriori prospettive da approfondire però in un’altra sede: la complessa istallazione Movie Mural del 1965/68 di Stan VanDerBeek, la messa in scena radicale e delicata di Mike Kelley Gospel Rocket del 2005 e il recente e magnifico video di Bruce Nauman, Walks in Walks out del 2016.
– Lorenzo Bruni
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