Dalla musica all’arte visiva: da giovane direttore d’orchestra a giovane gallerista e talent scout. Vincenzo della Corte, italiano ormai trapiantato a Vienna, ha aperto una sua piccola galleria dotata di un cortiletto chiamandola Vin Vin: Vin come la prima sillaba del suo nome, e ancora Vin come l’esatta pronuncia della parola Wien, cioè Vienna nella lingua tedesca. Singolarissima l’alternativa professionale rispetto alla sua specializzazione artistica in campo musicale. Era il marzo del 2016 quando inaugurò il suo spazio espositivo con Julian Turner, artista tedesco che un anno dopo si è aggiudicato un premio internazionale dedicato ai giovani. Riconoscimento di un certo spessore in quanto patrocinato dal Mumok, il principale museo d’arte contemporanea di Vienna, che vanta una collezione propria e grandi mostre con artisti di fama mondiale. Oltre a un premio in danaro, da parte del museo è prevista l’acquisizione di un’opera dell’artista e l’allestimento di una sua personale che avrà luogo nel novembre di quest’anno.
Con Vincenzo della Corte, seduti al Café Sluka, a due passi dalla sua galleria, giusto accanto al monumentale, neogotico palazzo comunale di Vienna, abbiamo intavolato una conversazione ponendo al centro la sua conversione all’arte visiva, un transito alquanto ineffabile. “Ineffabile”, esattamente come venne apostrofata la musica dal raffinato musicologo e pianista Vladimir Jankélévitch, filosofo bergsoniano per eccellenza.
Come gallerista, il tuo primo appuntamento con il pubblico viennese, notoriamente abituato a convivere con l’arte contemporanea, si è rivelato un ottimo inizio, direi un obiettivo centrato. Quindi, complimenti per aver fiutato già al tuo debutto professionale la qualità artistica di Julian Turner, un giovane a cui ora, con la vittoria del Kapsch Contemporary Art Prize 2017, si riconoscono talento e buone prospettive. Come hai intercettato questo artista, cosa ti ha colpito del suo lavoro e come sei riuscito a portarlo nel tuo piccolo spazio?
L’occasione fu divertente e, direi, eccentrica. Trovandoci entrambi in una tipica locanda viennese, Julian mi aveva incuriosito per il fatto che bevesse un tè caldo prima di iniziare a bere una birra. Disse che quella pratica costituiva il suo personale “costruttivismo giapponese”. In effetti, come definire, se non una dichiarazione di eccentricità, un titolo come Mi ricordo di tutto fuorché l’importante? Si chiamava così la mostra di Julian con cui ho inaugurato il mio spazio, era una dichiarazione di autentica eccentricità. Tra le altre cose, di lui mi colpirono certi spontanei guizzi di fantasia. A proposito di titoli, la personale che il Mumok gli dedicherà a seguito dell’assegnazione del Kapsch Prize, si chiamerà Warum nicht, Perché no.
Con quali artisti hai proseguito la tua attività di gallerista in cerca di giovani talenti?
Ho esposto Karoline Dausien, artista tedesca attiva a Vienna, una disegnatrice e scultrice dalla pratica diretta e complessa al tempo stesso. Poi Dino Zrnec, pittore croato che ho anche presentato a miart, il marzo scorso, con un risultato molto soddisfacente. Joakim Martinussen, artista norvegese che esplora le possibilità di modifica ed eliminazione del significato tramite una costante analisi dei contrari. E ancora Astrid Wagner, Karine Fauchard, Samuel Richardot, quest’ultimo un artista francese che a novembre avrà una personale alla Fondazione Ricard di Parigi. Da metà settembre ho in cartellone Cryptomom tuning in, una personale di Line K Meyer, artista danese che lavora a Vienna. Bravissima!
Hai delle preferenze espressive formali o linguistiche su cui intendi concentrarti? O vuoi essere libero di operare scelte anche molto differenti?
Non seguo un criterio prestabilito. Come già sto facendo, prendo in considerazione un ventaglio creativo il più ampio possibile; faccio scelte anche molto distanti tra loro, ma in definitiva solo in apparenza. “Einheit in der Mannigfaltigkeit”, unità nella diversità, è questo il concetto a cui mi ispiro.
Progetti e prospettive dopo la pausa estiva?
Per l’immediato futuro partecipo alla Vienna Contemporary, tra il 21 e il 24 settembre, una realtà che vedo molto viva. Ed essendo la fiera della città in cui vivo, mi è sembrato naturale parteciparvi. Presento Karoline Dausien e Samuel Richardot, artisti con pratiche molto diverse ma con interessanti punti in comune. Nello stesso periodo, con Joakim Martinussen, la galleria Vin Vin parteciperà a Not Fair, una interessante boutique fair a Varsavia.
È il momento di raccontarmi qualcosa della tua vita, della tua formazione culturale, dei tuoi interessi giovanili. Hai sempre avuto un’attrazione per l’arte visiva?
Innanzitutto ti dico che sono nato a Napoli e ho cominciato i miei studi di musica classica verso i nove anni. Sono stato ammesso al Conservatorio musicale di Napoli frequentando parallelamente gli studi regolari, scuola media, superiore ecc. Dal 1999 mi sono trasferito a Firenze per terminare gli ultimi anni di conservatorio, poi ho cominciato a viaggiare molto grazie all’attività di violinista. Nel frattempo, cercando di ampliare la mia conoscenza dei fenomeni artistici, rimasi molto colpito dalla lettura di una monografia su Gustav Klimt e la Secessione viennese. Pensandoci bene, quello fu il mio primo interessamento a un discorso sistematico sulle arti visive.
Se hai provato un certo stupore per Klimt e la Secessione, allora non mi pare affatto casuale questo tuo approdo viennese…
Probabilmente è vero, però la cosa non è così automatica. Prima ancora, per esempio, ero rimasto incantato dalla potenza della copertina di un libro con la foto di un’opera di Alberto Burri. Quel libro era Fahrenheit 451, di Ray Bradbury, e l’opera in copertina era Rosso plastica. Ogni volta che riprendevo a leggerlo non potevo fare a meno di soffermarmi sull’opera di Burri. La trovavo densa, audace, perfino folle. Mi è apparsa come la rivelazione di un mondo misterioso. È lì che forse ho sentito scattare una scintilla per l’arte visiva.
Una scintilla d’amore, quindi. Effettivamente, l’arte contemporanea un po’ audace e folle lo è, e magari molto più di un po’. Infatti, la si ama o la si odia. In ogni caso, semplicemente la si mette in discussione, nonostante oggi attraversi l’esperienza quotidiana in modo particolarmente pervasivo e incisivo…
Credo che in ogni epoca l’arte figurativa abbia svolto un forte ruolo sociale. Me ne sono persuaso quando sono andato ad abitare a Firenze. Stando a contatto con un ambiente estremamente ricco, tra architettura e arti figurative, pur proseguendo l’attività musicale, mi sono reso conto dell’influenza che la creatività artistica può avere nella coscienza umana. Una materialità che si fa spirito e al tempo stesso assume il carattere rivelatorio del sapere. Questo mi sembra in linea con quanto ha affermato Hegel: “Non c’è niente di più profondo di ciò che appare in superficie”.
Certo, posso condividere, ma per altro verso ti sei scelto un testimone scomodo. Hegel, rispetto a te, fa fare un percorso inverso alle arti. Nel suo sistema, la musica è la forma artistica che si distacca dalle arti visive ponendosi al di sopra di esse e sostituendosi proprio alla pittura nel manifestarsi dello Spirito Assoluto. Anche se poi il “gioco” non si arresta lì. Ti imbarazza questo rovesciamento?
No, non mi imbarazza affatto! Io sono curioso per natura, mi impegno di continuo a fare confronti tra la musica e l’arte visiva; cerco anche di capire in cosa si distingue il momento collettivo della fruizione dell’una e dell’altra espressione. Mondi che tendono a non comunicare affatto, nonostante i possibili accostamenti estetici e l’energia che esprimono. Molti pensatori e musicologi moderni ne hanno visto le analogie, o ne hanno teorizzato la fusione. Pensa alla proposta wagneriana della “Gesamtkunstwerk”, l’opera d’arte totale. Però in generale io vedo prevalere una incomprensione reciproca o un pregiudizio tra questi due mondi.
E, dunque, come sei arrivato a Vienna?
Beh, prima di arrivarci ne ho fatta di strada. Dopo Firenze mi sono trasferito a Milano, viaggiando anche molto per i concerti. Amsterdam, San Paolo del Brasile, Emirati, Mosca, Londra, Berlino, in tournée con la EUYO, l’orchestra dell’Unione Europea. Occasioni straordinarie per visitare pure molti bellissimi musei. Solo nel 2008 mi sono trasferito a Vienna, essendo stato ammesso al corso di direzione d’orchestra presso l’Università delle Arti Interpretative di Vienna. Qui ho completato il quinquennio di studi in direzione d’orchestra e teoria interpretativa, a cui è seguito il debutto presso il Musikverein, tempio mondiale della musica, esibendomi alla direzione della RSO Orchester, l’Orchestra Sinfonica della Radio di Vienna.
Suppongo che tu ti sia trovato bene qui, visto che ci stai mettendo le radici. Però mi è difficile capire perché, quando ti eri creato tutte le premesse per un’attività musicale di successo, hai deciso di dare una svolta alquanto avventurosa alla tua carriera…
Certamente mi sono trovato a mio agio. In ogni caso il passaggio a questa nuova esperienza con l’arte è stato graduale. Un po’ per curiosità e un po’ per gioco ho iniziato a fare parecchi studio visit; ho anche iniziato a scrivere di arte contemporanea per giovani magazine online e a organizzare piccoli progetti di mostre in forma intima, privata, cercando però di dare struttura e continuità a questa occupazione. Un’attività che nella primavera dello scorso anno si è finalmente concretizzata con l’apertura della galleria Vin Vin.
‒ Franco Veremondi
Vienna
VIN VIN GALLERY
Bartensteingasse 14
www.vinvin.eu
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