Mercato dell’arte e squilibri del presente
L’andamento del mercato dell’arte riflette il clima di incertezza che avvolge l’epoca attuale. Premiando le opere che traducono in linguaggi visivi le difficoltà odierne.
L’instabilità del presente e l’incertezza per il futuro sono le condizioni in cui vive oggi il pianeta; la loro percezione si riverbera anche sul mercato dell’arte, che negli ultimi mesi sembra essere sulle montagne russe. Per quanto gli operatori mostrino costantemente ottimismo, perché condannati ad alzare sempre l’asticella, i dati sono ambigui. L’impossibilità di prevedere il comportamento di venditori, compratori e intermediari sta trasformando le transazioni in un gioco d’azzardo.
Si pensi agli ultimi dati disponibili per misurare il trend globale, in attesa delle analisi statistiche di metà anno. Il 12% di incremento del 2017 rispetto al 2016, il grande entusiasmo delle fiere della prima metà dell’anno, la vendita del Nu couché (sur le côté gauche) di Amedeo Modigliani per 157 milioni di dollari erano tutti elementi promettenti. Qualcosa però non sta andando nel verso giusto, perché entrambe le evening sale di maggio a New York hanno totalizzato un risultato inferiore rispetto alle loro omologhe vendite del 2017: Sotheby’s ha venduto per 284 milioni di dollari – il suo risultato nel 2017 era stato di 319 milioni – e Christie’s 397 milioni – nel 2017 ne aveva totalizzati 448. In questo senso, la videoinstallazione di Bruce Nauman Contrapposto Split (2017), ora in mostra allo Schaulager di Basilea, sembra essere l’immagine più rappresentativa dello stato dell’arte. Nauman cammina rilassato e sorridente con le mani incrociate dietro alla nuca, ma ha il corpo tagliato in due: quando il busto va avanti, le gambe vanno indietro, mentre avanza, arretra.
Le opere su cui gli acquirenti fanno più pressione, inoltre, o quelle suggerite come investimento nelle fiere internazionali, mostrano un mondo che sembra andare in pezzi, ma anche in questo caso, come i passeggeri di prima classe sul ponte del Titanic, tutti continuano a ballare mentre la nave si inabissa. I “modern classic” Francis Bacon e Alberto Giacometti della mostra alla Fondation Beyeler, ad esempio, descrivono una condizione umana violentata, maciullata e scarnificata; le opere sono state prodotte decadi fa ma sono assolutamente attuali. Tuttavia, quello che impressiona non è tanto la potenza delle immagini quanto il loro valore economico, oggettivamente senza precedenti. Il record di Alberto Giacometti per una, una sola scultura, L’homme au doigt del 1947, è di 141.2 milioni di dollari (2015) e quello di Francis Bacon, Three studies for Lucian Freud del 1969, è di 142,4 milioni (2013) e in mostra ci sono circa cento opere.
L’ARTE E IL PRESENTE
Fra gli stand di Unlimited ci sono molte opere che mettono in luce le grandi difficoltà in cui viviamo. Death Star II (2017) di Robert Longo è una palla stroboscopica coperta da una concentrazione di proiettili, molto più grande e invadente di quella che l’artista aveva realizzato nel 1993, perché sono aumentate le vittime negli Stati Uniti da armi da fuoco. Ai Weiwei si immerge nei cocci, quelli che compongono Tiger, Tiger, Tiger del 2015, frammenti di porcellana Ming raccolti negli ultimi vent’anni; la tigre è simbolo di coraggio ma il fondo di una scodella a pezzi fa è una metafora del gigante asiatico. Camille Henrot in Saturday (2017) monta sequenze televisive in cui sono denunciati gli effetti nefasti del modo in cui l’Occidente si nutre e immagini di battesimi della Chiesa avventista del settimo giorno, percepiti come rinascite dopo una fine brutale. Jon Rafman in Dream Journal (2017) esplora gli effetti osceni e irresistibili delle nuove tecnologie sulla nostra psiche, il telefono, la costante connessione. Richard Mosse usa le tecniche di ripresa video-fotografica montate sulle armi per realizzare un documentario – Incoming, 2016 – sulla crisi delle migrazioni e sulle condizioni inumane in cui vivono i rifugiati; sullo stesso tema lavora Douglas Gordon in I had nowhere to go: portrait of a displaced person del 2016, che racconta di Jonas Mekas sopravvissuto alle persecuzioni naziste e costantemente sradicato. Rirkrit Tiravanija filma Bankok boogie woogie n. 1 (2015), dove combina le immagini delle barricate nella città tailandese con una performance basata su copertoni scolpiti nel rame e fatti rotolare. Francis Alÿs nel 2000 filma i tornado nei campi arsi e bruciati del Messico, che appaiono e scompaiono lasciando il deserto dietro di loro; Ibrahim Mahama impila cassette dei giovani lustrascarpe del Ghana e Paul Chan muove al vento Bathers on Ogygia (2018), dove la mitica Calypso è un sacchetto di plastica che sembra fluttuare senza vita tra le onde del Mediterraneo.
VERSO UNA RICOSTRUZIONE?
Come per Bacon e Giacometti, tutte queste opere sono spettacolari e bellissime, e i loro autori sono destinati a veder crescere il valore delle loro opere nei prossimi mesi. Ci si aspetterebbe una selezione di questo genere alla Biennale o alla Documenta, non nel marketplace per eccellenza: la voce degli artisti è ineludibile o ci siamo assuefatti anche alle immagini più toccanti? Il Mend Piece di Yoko Ono del 1966, installazione in cui i visitatori erano invitati a rimettere a posto i cocci di porcellana rotti e a esibire il risultato su scaffali bianchi, sembra venire da un altro tempo e da un altro pianeta. Con pezzi rotti, con colla e spago, si può ancora ricostruire un orizzonte di senso?
‒ Antonella Crippa
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #44
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