Dal piccolo risparmiatore al piccolo collezionista. L’editoriale di Stefano Monti
Perché anche i piccoli risparmiatori non investono in arte? I risultati sarebbero positivi per l’intero mercato, come spiega Stefano Monti.
Prendiamo un piccolo risparmiatore, il Signor Rossi. 37 anni, lavoratore pubblico, 1.700 euro netti al mese. Single, vive in una casa di proprietà e ha dei soldi da parte che i genitori gli hanno lasciato prima di andare in pensione.
Il tipo di persona, insomma, per cui le banche fanno a gara, perché permette una continuità di flussi che, in un periodo come questo, non è proprio frequentissima.
Come investirà, questo risparmiatore, le proprie risorse? Conti deposito all’1,50%, qualche piccola percentuale in qualche quota, ecc. ecc.
Cifre che, più o meno, verranno erose da costi di commissione, tasse e fluttuazioni del mercato.
La domanda, allora, è questa: perché non investire in arte? O meglio, perché non trasformare questo risparmiatore in un “piccolo collezionista”?
Troppo caro? Non è vero.
Un’opera d’arte contemporanea di un artista emergente può arrivare a costare tra i mille e i 20mila euro. Cifre del tutto analoghe a quelle investite dai cosiddetti “piccoli risparmiatori”.
Troppo rischioso? Nemmeno.
Sempre più frequentemente i grandi portafogli di investimento destinano parte dell’allocazione delle risorse in alternative assets tra i quali l’arte rappresenta un segmento consistente. Questo perché l’arte è notoriamente un bene anticiclico e quindi può rappresentare una diversificazione del rischio e partecipare attivamente al rendimento generale dell’investimento.
“L’arte è un bene anticiclico e quindi può rappresentare una diversificazione del rischio e partecipare attivamente al rendimento generale dell’investimento”.
Certo, scalare “al ribasso” i fondi di investimento non è un’operazione sempre raccomandabile, ma l’applicazione di una logica di diversificazione del rischio e degli asset di investimento può invece rappresentare una strategia vincente.
Quali motivi, allora?
I motivi sono molteplici ed elencarli tutti non è semplice. Sicuramente uno dei fattori principali è culturale. L’approccio attuale, in termini di investimento, vede l’arte come un bene elitario, proposta soltanto attraverso i family office che curano capitali da un milione di euro in su.
In questa struttura del mercato, sarà difficile che il sig. Rossi, dipendente pubblico, con una casa di proprietà, pensi all’arte come una forma di investimento.
Anche perché, va detto, neanche sul versante prettamente culturale l’arte riesce a raggiungere il sig. Rossi. Se l’arte contemporanea fosse presente all’interno delle nostre vite, allora potrebbe anche venire l’idea di poter acquistare un’opera. Fatta qualche eccezione, non è questa la realtà del nostro Paese.
A questo si aggiunge anche una questione un po’ più tecnica della gestione dei finanziamenti: il tasso di liquidità del bene. Gli investimenti che i piccoli risparmiatori fanno attraverso il sistema del credito hanno tutti elevati margini di liquidità. Ciò significa che in ogni momento è possibile disinvestire per poter procedere a una differente allocazione delle risorse o per ridurre il capitale vincolato a fronte di un prelievo necessario.
L’acquisto di un’opera d’arte, invece, presenta tassi di liquidità piuttosto bassi. Ciò vuol dire che se compri oggi un’opera d’arte, potrai anche dover attendere “anni” perché questa generi un ritorno economico.
“Piuttosto che immaginare soltanto una politica di potenziamento della domanda culturale in termini meramente fruitivi (quella seguita negli ultimi anni), si potrebbe iniziare a immaginare una politica di potenziamento della domanda culturale anche in termini di investimento”.
Ma è qui che c’è la grande differenza tra risparmiatori e collezionisti.
Acquistare un’opera d’arte soltanto per poter speculare sul suo valore economico e finanziario non è una strategia sempre vincente. Bisogna acquistare un’opera d’arte perché è bella, perché ci emoziona, ci identifica, ci arricchisce, ci stimola intellettualmente, ci sprona, ci consola e ci delizia. E perché nel tempo può anche aumentare di valore presentando tassi di redditività in alcuni casi molto considerevoli.
Perché, a differenza di tutti gli altri “titoli” e “alternative asset”, l’arte non si consuma (a meno di deterioramenti).
Piuttosto che immaginare soltanto una politica di potenziamento della domanda culturale in termini meramente fruitivi (quella seguita negli ultimi anni), si potrebbe iniziare a immaginare una politica di potenziamento della domanda culturale anche in termini di investimento.
Gli effetti, al riguardo, potrebbero essere davvero interessanti. Creazione degli incentivi all’investimento; aumento dell’offerta; aumento della domanda; maggiori tassi di investimento in arte; maggiore liquidità per il sistema delle gallerie e dell’arte contemporanea; maggiore circuitazione degli artisti; maggiore capacità di “promozione” delle gallerie; espansione del mercato; aumento del valore del mercato nel suo complesso; aumento del valore medio degli artisti e delle opere.
A giudicare, però, dalle aliquote fiscali che declassano l’arte venduta nelle gallerie a una qualsiasi categoria di beni venduti al dettaglio (scarpe, borse, cappelli, ombrelli ecc.), questa politica espansiva è ancora lontana dai nostri radar.
Preferiamo ingolfare i musei pubblici convinti che questo basti a rendere gli italiani più vicini all’arte. Contenti noi, contenti tutti.
‒ Stefano Monti
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