Biennale di Venezia. Temi e mercato
A oltre una settimana dell’avvio della Biennale curata da Ralph Rugoff, una riflessione sulle tematiche più in vista e sulle “regole del mercato” che si indovinano tra Corderie e Giardini.
May you live in interesting times. Con la 58. Esposizione Internazionale d’Arte, Ralph Rugoff, curatore americano, dal 2006 anche “europeo” per il suo ruolo di direttore della Hayward Gallery di Londra, si fa portavoce di un anatema che è allo stesso tempo un augurio. Molto velocemente, un presunto detto cinese citatissimo fin dalla fine degli Anni Trenta, una fake news prima delle scie chimiche, è diventato un mantra e si è diffuso su tutti i social. Come accade a quelli particolarmente azzeccati, il titolo è il primo, grande successo dell’edizione del 2019 della Biennale più longeva e seguita del pianeta.
Secondo gli artisti invitati a esporre, i nostri tempi sono effettivamente interessanti. E anche confusi, ottusi, disordinati, liquidi, frammentati, violenti, perversi, glamour, surreali e, tutto sommato divertenti. Certo, ci vuole una notevole dose di cinismo a definire interessanti l’odio razziale, le strade pulite dal sangue, il pianeta in estinzione e la totale sfiducia in una comunicazione veritiera tra gli esseri umani. Inoltre, vivere in tempi interessanti forse non è proprio positivo per tutti, o comunque per la maggior parte di chi non è socio del global-art-club e che fa quotidiana esperienza della mancanza di benessere, ma la rappresentazione è certamente molto convincente.
UN RUTILANTE CAOS
La Biennale di Venezia del 2019 sarà ricordata come un rutilante caos. Tra le sale è difficile trovare uno scorcio elegante o ben allestito, fatta eccezione forse per le installazioni di Haris Epaminonda (che, peraltro, si è aggiudicata il Leone d’argento), Gabriel Rico, e Tarek Atoui, che tuttavia fanno fatica a emergere, come se la ricerca di equilibrio e la sintesi, la bellezza insomma, avessero poco da dire oggi.
Non sarà certo menzionata nei manuali di storia dell’arte per aver sintetizzato quali sono le forme espressive più diffuse tra gli artisti, dato che c’è tutto di tutto, come sintetizza la compresenza della proposta A (all’Arsenale) e della proposta B (ai Giardini), due mostre distinte con gli stessi artisti impegnati in lavori molto diversi. In particolare sono incisive le performative installation, come Can’t help myself, 2016, il robot pulitore e la canna dell’acqua che diventa una frusta della poltrona di Lincoln di Sun Yuan e Peng Yu, tra le opere più potenti della mostra. Ci sono un buon numero di video animazioni, quelle di Ed Atkins e Jon Rafman come sempre sono le migliori, e un esperimento di realtà aumentata di Darren Bader. Erano anni tuttavia che non si vedeva tanta pittura, anche se spesso si fa fatica a distinguere una mano, una ricerca, dall’altra, tra Njideka Akunyili Crosby, Nicole Eisenman, Jill Mulleady, Avery Singer e Henry Taylor. È certamente il momento di George Condo, come ogni fiera di livello negli ultimi mesi ha testimoniato.
IDENTITÀ E CONTINENTI
È una Biennale impegnata a rappresentare nazionalità, continenti, generi e identità diverse. Il drappello che riflette sull’identità africana e sulle rivendicazioni afroamericane è particolarmente folto; alcuni artisti sono più incisivi di altri: tra gli altri Michael Armitage è il più forte in questo momento. Il numero di artiste donne per la prima volta è maggiore di quello degli artisti uomini. Le artiste si aggiudicano tanti premi ma non (ovviamente?) i due principali, quello alla carriera ‒ Jimmie Durham, e il Leone d’oro, Arthur Jafa. È peraltro affetta da gigantismo e in parte market based. C’è chi ha calcolato che un pugno di gallerie rappresenta il maggior numero degli artisti, molti di loro ben in luce ad Art Basel, da Christie’s e da Sotheby’s. Ed è anche per questo, forse, che è piaciuta ai collezionisti e agli art advisor, molti dei quali conoscevano bene gli invitati.
Molti sono i lavori sul grottesco e sulla maschera che nasconde mostri e difformità, come quelli di Kaari Upson, Cameron Jamie, Jean-Luc Moulene e Gauri Gill. Un altro tema ricorrente sono i conflitti (il video di Christian Marclay è un altro top ten di questa edizione), le disuguaglianze, le violenze; alla denuncia del narcotraffico di Teresa Margolles e allo sfruttamento minerario di origine coloniale di Otobong Nkanga sono andate infatti le menzioni speciali. Ma c’è anche tanto altro, come le casse toraciche piene di immondizia di Andra Ursuta, i coloratissimi teletubbies della videoinstallazione di Alex Da Corte, o L’Ange du foyer di Cyprien Gaillard, le stampe ‘seventies’ di Ad Minoliti, la mucca treno di Nabuqi… Si fa fatica a concentrarsi sulle opere non in movimento, un altro tratto distintivo dei nostri tempi, affetti dalla paura della stasi, chi si ferma è perduto.
I PADIGLIONI NAZIONALI
È una edizione, infine, in cui i padiglioni nazionali sono meno interessanti della mostra internazionale. Fanno eccezione il Padiglione della Lituania di Rugilé Barzdziukaité, Vaiva Grainyté e Lina Lapelyté, quelli del Brasile con Barbara Wagner & Benjamin de Burca e dell’Australia con Angelica Mesiti, che sono molto riusciti e in linea con la mostra internazionale. Il celebratissimo primo Padiglione del Ghana, disegnato da Sir David Adjaye, con le opere di alcuni degli artisti più acclamati e ricercati dai collezionisti di questi ultimi anni tra cui El Anatsui, Ibrahim Mahama, Lynette Yiadom-Boakye e John Akomfrah, sembra già il passato.
‒ Antonella Crippa
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