La storia dei profili di collezionisti d’arte fasulli scovati su su Instagram. Truffa o boutade?
La cricca dei finti collezionisti su Instagram è stata smascherata grazie all’impegno del gallerista Federico Vavassori. Ottima occasione per riflettere sulla relazione tra sistema dell’arte e mondo digitale
Il sistema dell’arte è stato attraversato nell’ultimo weekend di festività da una notizia che ha del surreale e del grottesco ai confini non così ampi, le cui ricadute riflessive, tuttavia, sono di un qualche interesse. Il fatto, così come riportato da ArtEconomy de Il Sole 24 Ore è in breve il seguente: il gallerista Federico Vavassori intercetta sul profilo instagram del collezionista Pier Paolo Lonati, un’opera di un suo artista. L’opera però lo insospettisce, sembra falsa o artefatta. Contatta il proprietario via messaggio diretto per raccogliere informazioni e dopo una serie di conversazioni con lui e in parallelo anche con altri collezionisti che spesso interagivano con Lonati, scopre di trovarsi di fronte ad una persona inesistente. A cascata crollano – e spariscono rapidamente dalla rete – sia il primo profilo, quello di Lonati, che quelli di Carlo Alberto Ferri, Beatrice Rinaldi e Raffaele Sartori. Nessuno di loro esiste, né tantomeno colleziona opere d’arte.
I COLLEZIONISTI FALSI SU INSTAGRAM
Il sistema scopre così all’improvviso di essere nudo, cioè di aver interagito e dato credito a quattro persone che per circa due anni hanno finto di essere dei collezionisti di arte contemporanea. Hanno finto di comprare, rivendere, partecipare ad eventi. Attraverso profili e post costruiti con minuzia e conversazioni email o in direct message, la “banda di Instagram” è riuscita in effetti a far cadere nel tranello il fior fiore degli operatori, dai mezzi di informazione ai curatori, dai galleristi ad altri collezionisti. E tanto efficace, e sottile, è stata la macchina messa in piedi che persino lo stesso giornalista che ora l’ha smascherata sul Sole aveva intervistato l’anno scorso proprio uno di questi collezionisti fasulli chiedendogli suggerimenti per gli acquisti d’arte da riportare ai lettori. Al pari di galleristi che sono stati in contatto con i quattro da almeno un paio d’anni. “Si parlato più volte di opere e di prezzi”, ci hanno confermato quelli che abbiamo raggiunto, “si dialogava, noi li seguivamo sui social e loro seguivano noi”. Di sicuro “ci è voluto da parte loro un grandissimo impegno!”, considera qualche altro gallerista. Del resto i profili erano ben congegnati, portati avanti da mesi, dunque nessuno aveva pensato che dietro si potesse nascondere qualche malintenzionato o qualche macchinazione. E allora, ben volentieri, tutti i galleristi hanno fornito informazioni, hanno parlato di prezzo, hanno ceduto dati anche parzialmente sensibili su giovani artisti o su nomi di grido.
I SOCIAL COME ARMA A DOPPIO TAGLIO
La mistificazione architettata ha retto e questi “catfish” hanno potuto agire – per quanto ne sappiamo finora, a dire il vero senza grossi effetti collaterali concreti – come un gruppo di pressione, una piccola lobby digitale che si legittimava a vicenda, acquisiva fiducia nel target, diffondeva un gusto e dava consigli di acquisto. L’obiettivo di una tale messa in scena, e di un tale impiego di risorse di tempo, energia, ideazione, non è ancora del tutto chiaro. O forse sì. Perché quello che ha preso corpo attraverso una costante presenza sui social sembra essere una strategia ben architettata di comunicazione e valorizzazione di alcuni artisti promossi dai sedicenti collezionisti, i quali agivano, come spesso in effetti accade, al pari di influencer o gatekeeper. E lo hanno fatto tirando i fili di pattern che i teorici e gli operatori conoscono bene e applicano ogni giorno, in buonissima fede si intenda. Tenendo insieme i vari tasselli della filiera e il contributo di ciascuno nel processo di costruzione di valore culturale ed economico, dagli esordi in spazi indipendenti alla credibilità conquistata entrando in collezioni stimate. Insomma l’ipotesi più accreditata è che dietro ai finti collezionisti ci siano alcuni artisti vogliosi di testare le potenzialità di Instagram come strumento di influencing: i fake-collector parlavano di grandi artisti, di nomi affermati, di giovani rampanti coccolati dalle case d’asta e, in mezzo a questo buzz tra post, commenti e stories, infilavano ogni tanto una citazione di emergenti italiani. Gli stessi emergenti che potrebbero essere dietro all’operazione.
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IL SISTEMA E I COLLEZIONISTI MILITANTI
E qui veniamo in conclusione alla parte che interessa maggiormente. Perché quello che la vicenda fa emergere è il grado di fragilità e di esposizione di un sistema dell’arte che, complice anche la pandemia, accetta, incoraggia e si accontenta di processi di legittimazione e validazione di artisti e collezionisti attraverso una dimensione puramente virtuale, che per sua natura spinge il pedale anche su una accelerazione innaturale delle carriere. E che, mentre ragiona sulle responsabilità del collezionismo, finisce per far confusione tra l’etica del suo ruolo pubblico e il glamour di un account social. Sia che questa faccenda possa esser vista come una infelice boutade o come un’indizio di dinamiche più rilevanti, sarà di sicuro meglio per tutti continuare a guardare con rispetto a quel collezionista che altrove abbiamo definito “militante”, per il suo essere immerso nella realtà e identificabile come un contemporaneo mecenate – e si perdoni l’autocitazione (da “Two golds. Appunti e ipotesi per un collezionismo militante”, in Collezionismo Italiano Attivo. Ciak Collecting, a cura di Irene Sofia Comi, Viaindustriae publishing, 2021) – “nella sua centrale e strategica interazione con i diversi operatori del sistema dell’arte. È qui che la storia dei patronati di età moderna si rinnova, in un collezionare che si fa intensa compartecipazione al processo creativo e commerciale, che interviene in supporto della produzione artistica e risponde, come domanda attenta, all’offerta del suo mercato. […] La strada da percorrere appare ancora quella della collaborazione poggiata su basi condivise e difficilmente negoziabili di condotte professionali etiche, trasparenti, responsabili. […] Per decolonizzare la filiera da comportamenti predatori e approfittatori e, laddove il marketing segmenta e frammenta, lasciarsi colonizzare, al contrario, da un patto unitario di fiducia trasversale al comparto intero, dal vertice della piramide all’ultimo dei lavoratori”. E’ pur vero che la filiera deve pur esserci e negli ultimi due anni non c’è stata o c’è stata meno. Una storia insomma che ci racconta anche l’importanza dei cari vecchi momenti di incontro che sono mancati e auguriamoci si ripristino presto a regime: le fiere, le mostre, le feste, le inaugurazioni, gli studio visit, le biennali. Se ci si vede di continuo la lancetta della rilevanza si sposta più sulla relazione reale e meno sull’interazione virtuale. E dal vivo ci si camuffa con minore facilità.
– Cristina Masturzo
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