Storica intervista a Giorgio Franchetti, leggenda del collezionismo d’arte italiano
L’arte contemporanea è un gioco d’azzardo. La pensava così Giorgio Franchetti, collezionista scomparso nel 2006 che fece entrare nella sua raccolta giganti come Cy Twombly, Burri, Kounellis, Fontana. Riportiamo qui il dialogo tra Franchetti e Agnieszka Zakrzewicz, avvenuto nella casa romana del collezionista più di vent’anni fa
“Perché?”, mi chiese in maniera brusca, quando lo chiamai oltre venti anni fa per chiedere un’intervista. Ho risposto che mi piaceva un aneddoto su di lui, secondo il quale sarebbe diventato un collezionista per pura golosità. Al telefono mi rispose: “Non do le interviste, ma venga a trovarmi, possiamo parlare”.
La sua casa romana nel cuore di Trastevere, in via degli Orti d’Alibert, un tempo fu la Cereria Pontificia. Nel giardino era esposto il Cannone di Pino Pascali. Nel salone troneggiava una grande tela di Cy Twombly e sulle pareti si potevano ammirare numerose opere di artisti contemporanei italiani e stranieri. Mi soffermai davanti a un quadro di Tano Festa, uno tra i pittori preferiti del padrone di casa. Lui mi sorrise e disse: “Le finestre e gli obelischi sono l’essenza di Roma”.
LA STORIA DI GIORGIO FRANCHETTI
Giorgio Franchetti (1920-2006) è stato uno tra i più rinomati e apprezzati collezionisti d’arte contemporanea in Italia. Aveva collezionato Schifano, Tano Festa e gli artisti della Scuola di Piazza del Popolo, fino ai pittori della Transavanguardia. Aveva portato a Roma il genio di Cy Twombly e aveva venduto i quadri degli artisti della Pop Art americana per investire nell’arte italiana. Anche suo nonno, omonimo Giorgio Franchetti, fu uno dei più importanti collezionisti italiani dell’Ottocento. Nel 1894 acquistò il Palazzo Cavalli a Venezia, meglio noto come Ca’ d’Oro, per ospitarvi la propria collezione di opere d’arte e renderla visitabile al pubblico. S’impegnò nell’impresa di restaurare e restituire all’edificio l’originario aspetto quattrocentesco e nel 1916 lo donò allo Stato italiano assieme alla collezione.
“Anche mio padre collezionava arte. A casa sentivo parlare solo di Piero della Francesca, di Giorgione, di Mantegna, e gli chiedevo se era davvero possibile che dopo il Settecento l’arte non esistesse più” – mi disse Franchetti. “Dopo il Neoclassicismo non c’è niente, mi rispondeva lui. Mio padre escludeva il presente perché lo riteneva troppo invadente, realistico per fissare la bellezza“.
“È stato Twombly a darmi la certezza che nell’arte contemporanea si può trovare la bellezza classica, con cui intendo l’armonia universale”
“Com’era questa storia di arte e golosità?”, gli chiesi.
“Dalla scuola media tornavo a casa sempre a piedi per risparmiare sul biglietto del tram e comprarmi dei dolci. Un giorno passai davanti a una piccola galleria, dove in vetrina era esposto un dipinto di un pittore sconosciuto. Si chiamava Giorgio de Chirico. Era un quadro metafisico. Quelle statue erano come in movimento, quelle piazze vuote e desolate mi affascinavano. Cominciai a sbirciare all’interno del negozio. Ricordo che il gallerista possedeva stampe di Morandi, de Pisis, Tozzi, Rosai ‒ artisti oggi appartenenti al passato, ma allora, parliamo della fine degli Anni Trenta del secolo scorso, era questa l’arte contemporanea. Non si trattava più della vibrante pittura impressionista, ma di qualcosa di completamente nuovo. Le opere di de Chirico erano affascinanti, surreali e angoscianti. Così iniziai a ficcare il naso nell’arte contemporanea. I primi quadri li comprai già a venti anni, appena avevo qualche soldo in tasca e trovavo qualcosa d’interessante. Ma va detto che era una passione costosa… Dovevo spesso camminare a piedi e anche rinunciare ai dolci. Poi ho conosciuto personalmente de Chirico, de Pisis e tutti i loro contemporanei. Venivano a casa mia a cena…”.
“Ritiene che de Chirico fosse un pre-surrealista?”, mi incuriosii.
“Il Surrealismo fu suo figlio, anche se lui ne ha negato la paternità”, continuò Franchetti.
“La sua personale idea dell’arte nasce con i ‘mobili nella valle’, dopo la mostra nel 1926 a Parigi e grazie al sodalizio con il gallerista Rosenberg. André Breton aveva già scritto il manifesto del Movimento, ma non aveva ancora sviluppato appieno la poetica dell’immagine surrealista. I surrealisti hanno cercato di portare de Chirico dentro il Movimento, considerando il suo modo di dipingere come la chiave di lettura delle visioni oniriche. Ma poi avvenne la rottura definitiva… René Magritte, che avevo conosciuto negli Anni Sessanta in Belgio, mi disse che avrebbe sempre voluto dipingere quadri surreali, ma non sapeva come. Ebbe un’illuminazione alla mostra di de Chirico. Capì cosa significava confondere, disorientare, sorprendere lo spettatore. De Chirico voleva sfuggire da ogni tentativo di classificare la sua arte”.
“Un po’ di surrealismo in de Chirico possiamo trovarlo ancora nei ‘Bagni misteriosi’ del 1973…”, dissi.
Franchetti arricciò la fronte con le sue sopracciglia foltissime e rispose: “Certo, nei ‘Bagni misteriosi’ è stato usato lo stesso trucco per confondere, disorientare, cambiare il contesto. Ma rappresentare le onde come se fossero dei cubi di parquet, a mio avviso, fu già qualcosa di diverso. Questa geometria dell’acqua non è un atto di surrealismo, ma pura metafisica. Dopo il 1930 i quadri di de Chirico non sono più surreali, diventano metafisici”.
“La metafisica di de Chirico, più che nel soggetto, si manifesta nell’atmosfera dei suoi quadri, nell’uso specifico della luce…”.
“Sì, la metafisica dell’immagine è spesso nascosta nella sua atmosfera”, concordò il barone. “Quest’atmosfera che crea uno stato d’animo fa sì che si sviluppi un rapporto speciale tra lo spettatore e l’immagine, che si trasforma in seguito nella necessità di possederla. L’immagine ci colpisce attraverso un’atmosfera che è più nostra che dell’artista che ha creato l’opera. L’immagine ruba l’anima del collezionista”.
IL COLLEZIONISMO SECONDO FRANCHETTI
Giorgio Franchetti confessò che a un certo punto de Chirico non gli bastava più. Sentiva la necessità di un vero incontro con il presente. “Si sbarazzò” di de Chirico e degli altri ‒ cioè vendette bene i loro quadri, perché gli autori erano diventati famosi, e poi dal 1956 cominciò a seguire l’attività di Plinio de Martiis e finanziare la sua celebre galleria La Tartaruga, che divenne il ritrovo di artisti, critici e intellettuali del periodo. Il barone diviene un grande mecenate di Burri, Fontana, Rotella, Schifano, Angeli, Pascali, Castellani, Cy Twombly (futuro marito della sorella Tatiana), Manzoni, Tano Festa, Scialoja, di tutto quel gruppo di artisti dal quale nacquero la Scuola di Piazza del Popolo e il Gruppo degli Anacronisti.
“Nel 1957 Cy Twombly arrivò dall’America”, raccontò Franchetti. “Un ragazzo strano, eccentrico, ma sicuramente molto interessante. Lo conoscevo a malapena, ho sentito solo che aveva talento. Mi mostrò i suoi disegni. Ho visto quei piccoli fogli disseminati di segni vibranti, insieme casuali e perfettamente organizzati, privi di significato descrittivo o illustrativo, ma legati allo stato nevrotico del personaggio e che ne riflettono tutta la personalità. Poi ho avuto uno shock. È stato Twombly a darmi la certezza che nell’arte contemporanea si può trovare la bellezza classica, con cui intendo l’armonia universale. Ho pensato alla massima di Leonardo da Vinci: ‘La pittura è una questione di mente’”.
“L’arte contemporanea, però, è un gioco d’azzardo, che ‒ in fondo – ti tiene in vita…”
La visione del mondo e il gusto dell’illustre collezionista romano si sono formati attraverso un graduale avvicinamento al mondo dell’arte. Visitava le mostre e gli studi degli artisti. Curiosava. Sbirciava. Poi lui e Plinio de Martiis organizzavano le mostre alla Tartaruga.
“Devo ammetterlo, era per me una specie di gioco d’azzardo”, confessò il collezionista. “Cercavamo nuovi artisti, e scommettevamo su di loro. Con soddisfazione posso ammettere che di solito vincevamo il jackpot. Plinio de Martiis aveva un intuito e un fiuto straordinari. Esponeva ciò che gli piaceva, ciò che lo impressionava. Ed è così che iniziai la mia vera avventura nell’arte contemporanea. Forse proprio perché in essa c’era un elemento di gioco d’azzardo, una scommessa con il futuro, con la stessa storia dell’arte. In un certo senso l’ho creato io, a differenza di mio padre e mio nonno che si sono limitati a catalogarla. In quel periodo in tutta Europa esplode il minimalismo ‒ la tendenza che negli Anni Sessanta fu protagonista del radicale cambiamento del clima artistico, caratterizzata da un processo di riduzione della realtà e dalla freddezza emozionale. Il minimalismo si consolidò a Roma, grazie ad artisti come Fontana, Schifano, Burri, Rotella, Dorazio, Mauri, Kounellis. In quegli anni si creò un clima che, grazie alla radicale formazione filosofica degli Anni Cinquanta, ha gettato le basi per la critica del concetto esistenziale di arte. Quel clima è stato meglio richiamato dalla mostra ‘The Italian Metamorphosis, 1943-1968’, che si è svolta al Guggenheim Museum di New York, negli Anni Novanta”.
“Vedo che ha nella sua collezione anche le opere di Giacomo Balla”, dissi avvicinandomi a uno dei quadri. “Le sue opere futuristiche, in un certo senso, prefiguravano la svolta degli Anni Cinquanta”.
“Oh sì! Balla fu il primo pittore concettuale italiano“, concordò il barone, mostrandomi un’altra opera. “Un disegno del 1914 che ho nella mia collezione, intitolato ‘Penetrazione + Spazio’, è un lavoro sui sistemi teorici. E, secondo me, è proprio da qui che inizia l’arte moderna. Non da Duchamp, perché Duchamp era un teorico d’avanguardia che, in fondo, fu un surrealista. Balla, invece, appartiene al mondo della tecnologia. Lui creò una poetica del realismo basato su basi scientifiche. Ho sempre considerato questo schizzo molto rivoluzionario. Potrebbe sembrare che questo lavoro riguardi la prospettiva. Invece sono le dipendenze spazio-temporali. Queste linee sono le ascisse laterali, e queste sono le ordinate della linea dell’orizzonte. Sono separate, l’una dall’altra, da campi la cui superficie aumenta in proporzione diretta all’interno. Le ordinate, invece, hanno lo stesso incremento aritmetico, ma nella direzione esterna. Così le righe che corrono all’infinito, poiché la loro lettura non può essere diversa dalla lettura del tempo, si allontanano quando vengono osservate. In questo disegno Balla anticipa intuitivamente la teoria della relatività di Einstein”.
GIORGIO FRANCHETTI E L’ARTE CONTEMPORANEA
Intanto davanti ai miei occhi scorrevano come in un film le opere di Twombly, Clemente, Chia, Ontani, Paladino, Balla, Schifano, Manzoni, Kounellis, Pascali, Kossuth, Beuys, De Dominicis, Burri, Festa, Boetti e di tanti altri, c’era tutta l’arte contemporanea italiana e quella di artisti legati all’Italia.
“Vedo anche l’opera di un polacco…”, notai.
“Questa è una scultura di Krzysztof Bednarski del 1993”, spiegò. “Un giorno andai in una galleria, dove era esposto il suo ‘Moby Dick’. Mi piacque. Conobbi Bednarski che successivamente venne a trovarmi. Si offrì di farmi un ritratto, e siccome molti altri artisti me l’avevano già fatto, non potei rifiutare”.
“Immagino che sia piacevole intrufolarsi nella storia dell’arte, posando per dipinti e sculture”.
“Oh sì, senza dubbio! È un privilegio che a un collezionista piace molto. Ma credo che ce lo possiamo permettere, visto che l’arte vive anche grazie alla nostra golosità. La mia collezione e anche la storia della mia vita…”, disse il barone mostrandomi un altro suo ritratto, un dipinto di Sandro Chia.
“Alla fine vorrei porle una domanda: non si è mai pentito di aver venduto tutti i quadri della Pop Art americana che oggi avrebbero un valore inestimabile?”.
“Beh, alle stime di oggi potrei dire di aver fatto un pessimo affare, ma sono felice. Ho sempre desiderato di avere una collezione contemporanea di arte italiana. Se qualcosa era già entrata nei libri di storia smetteva di interessarmi. Comunque, probabilmente finirò anch’io come mio padre, e mio nonno – cioè come un collezionista che cataloga l’arte… L’arte contemporanea, però, è un gioco d’azzardo, che ‒ in fondo – ti tiene in vita…”.
Agnieszka Zakrzewicz
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