Democrazia diretta e illusione populista. Cultura come libertà
La retorica populista della democrazia diretta cosa nasconde? Siamo davvero liberi di scegliere? Governa il popolo o la massa? E quanto è utile insistere sul mito della sovranità popolare, se poi non si migliorano le condizioni culturali di tutti, ancor prima di quelle economiche? La libertà non si separa dalla conoscenza. E su questi principi si fonda un moderno concetto di comunità: l’Europa da qui deve ripartire.
CULTURA E/È LIBERTÀ
È il suo lato migliore, ma anche il limite più evidente. La democrazia vive nella propria felice ambiguità e noi non possiamo che farcela piacere, anche quando non ci convincono soluzioni, decisioni, strategie, risultati, persone. La sua bellezza e la sua dannazione sono tutte qua, in questa natura a specchio: quando la maggioranza sceglie, le conseguenze sono per tutti. E sono la forma e il destino di un’intera collettività, forgiata a immagine e somiglianza di chi ha deciso. Tutto bene? Non sempre. Il popolo ha spesso scelto male. Di pancia, d’istinto, senza capire, senza sapere; o ancora nel compromesso, nella clientela, nell’imbroglio, nella corruzione; o magari nella schiavitù, nel bisogno, nella fame; o nell’ingenua speranza d’indovinare, semplicemente.
Sbagliare è umano. Capita di scegliere qualcosa o qualcuno che si rivelerà nefasto, inopportuno, inutile, letale. Ma ci sono errori che non arrivano dal caso e che tradiscono, semmai, mancanze strutturali. Scelte in cui c’è il dolo reiterato – gli italiani ne sanno qualcosa: tutti contro la casta dei politici furfanti, ma si tira dritto quando è ora della raccomandazione, della casa abusiva, del concorso truccato, del furto al socio, al collega, allo Stato – oppure scelte che vivono di incoscienza, di disinformazione, di inconsapevolezza, di superficialità, di pochi strumenti culturali, di debolezza intellettuale, di pigrizia mentale.
Ammetterlo non è né snob né classista. È ribadire che un voto è un atto di responsabilità; e che chiedere attenzione, cura, occhi e orecchie spalancati, profondità di analisi e autonomia di pensiero, non è uno scandalo, non è un insulto al popolo, non è uno sputo sulla democrazia. È un invito. Un monito. Una preghiera a sé stessi e a chi governa. È un accento fissato bene in capo a una questione nodale. Ovvero: la cultura rende liberi. L’avremo sentito dire mille volte e l’avremo ripetuto altrettante, quando c’era da lamentarsi per i fondi troppo esigui destinati al capitolo Beni Culturali o Scuola. E poi, però, ce ne dimentichiamo se la faccenda riguarda il senso e il destino della democrazia. Lesa maestà: nessuno tocchi il principio democratico. Ci mancherebbe.
NÉ QUIZ, NÉ LAUREE, NÉ ÉLITE
Ma cosa significa essere liberi grazie alla cultura? Che solo chi ha una laurea in tasca e ha letto un numero minimo di libri dovrebbe essere autorizzato a votare? Certo che no. In fondo la democrazia, e non l’oligarchia, resta la forma di governo migliore che l’uomo abbia mai sperimentato. Nonostante la sua imperfezione cronica, la sua incompiutezza organica, la sua natura utopica.
Ma ricordarsi di quella libertà che è sorella della conoscenza – come già capirono Voltaire e Montesquieu – è solo uno sprone. E non c’entrano titoli di studio e quiz attitudinali. È un fatto di mente aperta, affilata, indipendente; di animo sgombro da pregiudizi e da paure; di strumenti di analisi e di lettura; di accesso all’informazione e di sua rielaborazione; di capacità di comprendere un testo, di onestà intellettuale, di fame di verità. Un popolo colto è, in sostanza, un popolo consapevole. E cambia, per ognuno, la quantità e la qualità di libri, di incontri, di modelli familiari, di viaggi, di esperienze, di occasioni, che sono necessari per avvicinarsi a quell’idea di libertà. La scolarizzazione è imprescindibile; ma i percorsi sono soggettivi. Per questo la cultura non si misura e l’accesso al voto non si può far dipendere dalla compilazione di un test. Tutti hanno il diritto di votare. Ma tutti hanno il diritto e il dovere di evolversi, di lavorare su stessi, di non accontentarsi, di prendere coscienza delle cose.
Il punto allora non è limitare il voto, indebolire la democrazia, disprezzare i cittadini, difendere l’élite; il punto è augurarsi che la cittadinanza maturi, diventi massa critica, affili le sue armi. Producendo decisioni realmente autonome. Il punto è chiedere a gran voce investimenti e spingere perché il capitolo “cultura” non sia un optional – per governi, partiti, cittadini – ma una priorità.
Qualcuno, tra coloro che si indignano per le critiche alla democrazia diretta, se la sente di negare che fascismi, nazismi, populismi, razzismi, mafie, fanatismi si insinuano meglio e di più laddove una società è debole? Debole economicamente – dunque ricattabile – e debole culturalmente – dunque manovrabile. Qualcuno può forse negare che la cultura come consapevolezza è una forma di affrancamento dall’inganno, dal ricatto, dall’abuso, dal plagio?
Ecco la questione. Se la maggioranza vota non con cognizione di causa, ma perché sedotta da chi – i media? il potere? – ha fatto leva sull’ignoranza, sul disagio, sull’emotività, sui pregiudizi facili, sarà o no, quel voto, un gesto poco libero?
DIRETTA O RAPPRESENTATIVA?
La formula rappresentativa prova a smorzare questa caratteristica strutturale, che fa della democrazia uno specchio fedele della massa: il popolo, in questo caso, si affida a chi dovrebbe vantare merito e conoscenze specifiche, a chi dovrebbe governare con competenza e misura, per conto del popolo stesso; la democrazia diretta, invece – intorno a cui i movimenti populisti di oggi stanno imbastendo retoriche interessate e pericolose – non contempla tutto questo. A scegliere è la gente, anche quando non sa cosa sta scegliendo.
Dunque, fatti salvi i referendum di natura etica, che toccano la sfera privata delle persone, esiste un abuso dello strumento referendario che, sull’onda di un certo populismo ruffiano, dà in pasto al cittadino questioni complesse, troppo tecniche o con un respiro politico-economico internazionale, giusto per farlo sentire vero “protagonista”. Difficile che la maggioranza si orienti, che sappia realmente cosa decidere, che abbia gli strumenti per valutare, che non voti sull’onda dell’emozione momentanea. E più il grado generale d’immaturità e di fragilità culturale cresce, più facilmente politici, organi di stampa, lobby, partiti, determineranno in modo opaco le scelte collettive, inducendo percezioni distorte. E allora, di vera sovranità si tratta o di facile illusione? Torna alla mente quella “oclocrazia” di platonica memoria (dal greco óchlos, massa), descritta come degenerazione della democrazia e anticamera della tirannia.
TRA POPULISMI E NAZIONALISMI
È appena accaduto in parte col caso Brexit, che ha visto il fronte del Leave impegnato in un’appassionata campagna e quello del Remain, al contrario, molto più debole sul piano della comunicazione. Nigel Farage – leader dell’Ukip, partito nazionalista xenofobo, primo promotore del referendum – all’indomani del voto ha ammesso in tv che l’argomento principe utilizzato dal fronte del Leave era una bufala. Un equivoco. I 350 milioni di sterline versati ogni settimana dall’UK alla EU (che in realtà sono molti di meno: prima bugia) non andranno al servizio sanitario britannico, come promesso. Ed ecco tanti cittadini inglesi svegliarsi dalla febbre euroscettica: ma come? Doveva dircelo prima! Avremmo votato diversamente!
L’Inghilterra è un popolo con un alto tasso di xenofobia e con un sentimento nazionalista piuttosto forte. Ripetere semplicisticamente – come amano fare in queste ore Salvini, Di Battista o Meloni – che è tutta colpa di un’Europa cattiva, austera e matrigna, è insufficiente, se non fuorviante.
Molte le cause e tutte connesse. Un voto dei vecchi contro i giovani? In un certo senso sì, ma con possibili precisazioni. Secondo un sondaggio di Sky News, l’83% dei votanti sarebbe collocabile nella fascia over 65, con solo il 36% di elettori tra 18 e i 24 anni recatisi alle urne. L’astensionismo dilaga tra i ragazzi? Se i dati fossero ufficialmente confermati, sì. Resta vero, in ogni caso, che gli inglesi più attempati sono stati i principali fautori del Leave: nella fascia degli over 65 il Remain cala fino al 33%.
Secondo le statistiche, dunque, hanno votato Leave soprattutto cittadini anziani, ma anche conservatori, meno istruiti, residenti tra periferie e centri rurali. Ha contato il dato povertà e disoccupazione, con la paura di non resistere ai colpi della crisi. Ha contato il mito della sovranità, nell’immagine di un’Europa che impone regole esterne e scippa autonomia alle nazioni; hanno contato diffidenza e intolleranza verso gli stranieri, percepiti come “troppi”, pericolosi e scomodi (in realtà sono il 13% della popolazione – dati UN, 2015 – ma con un chiaro trend di crescita e un forte incremento delle migrazioni da zone UE); e ha contato persino il semplice fastidio per quei soldi “regalati” alla EU. Soldi che in realtà tornavano parzialmente indietro e che tra le varie cose garantivano assistenza sanitaria ed esperienze formative ai cittadini europei presenti sul suolo britannico.
Ed ecco il punto: chi ha votato Brexit – o ha disertato le urne – probabilmente non sentiva a sufficienza la “comunità”, sul fronte dei diritti, dei valori, dei servizi condivisi, del lavoro e della ricerca come orizzonti comuni, della libera circolazione di idee, cose, persone. La propaganda – al netto di chi, naturalmente, avrà scelto sulla base di convinzioni forti e analisi lucide – non ha fatto che alimentare emozioni, timori, rabbia, slogan, cliché.
Le responsabilità sono allora di una una classe media spesso stanca, arrabbiata, che non si sente abbastanza tutelata; di una destra demagogica, xenofoba, nostalgica e nazionalista; di una sinistra imborghesita, che ha perduto ogni rapporto con le classi popolari e le periferie; dei partiti che hanno perso il loro ruolo di guida, informazione e riferimento; ma anche di un’Europa unita che non unisce e non seduce abbastanza, soprattutto su quel piano: la cultura come dialogo, ponte, sviluppo, identità plurale.
Condannare non basta e non serve. Il dato esiste e occorre prenderne atto, accogliendo quello che rimane un segnale chiaro.
INDIETRO NON SI TORNA. IL DESTINO DI UNA MODERNA COMUNITÀ
Che l’Europa debba cambiare è un fatto. Meno burocrazia, meno iniquità, meno cinismo. Che debba autodistruggersi è una sciocchezza colossale. L’Europa aveva e ha il dovere di farsi comunità per davvero, diminuendo i gap economici, lavorando sui contenuti, potenziando le affinità tra i popoli. Perché, come immaginarono i vari Spinelli, Rossi, Colorni – antifascisti e padri dell’europeismo moderno – l’Unione delle Nazioni deve continuare a farsi solida barriera contro le guerre, i pregiudizi, le violazioni dei diritti umani, l’isolamento, il razzismo, l’ignoranza, il provincialismo. E deve farsi volano, occasione creativa, visione.
Serve, nel cuore di un capitalismo feroce, un’Europa che si fondi su un progetto etico e culturale. Uscendo dall’equivoco reazionario che i nuovi populisti del Vecchio Continente – Ukip, Movimento Cinque Stelle, Lega, Fratelli d’Italia, Front National, FPÖ, PVV… – stanno cavalcando fra chi vive un disagio sociale, intercettandone il classico “voto di pancia”: indietro non si torna. Non si torna alla lira e al franco, ai micro regni chiusi in se stessi, alle dogane e al principio di esclusione.
E non sarà una semplice X su un quesito referendario a risolvere una situazione mostruosamente complessa. Il mondo ha mutato forma e volto, insieme al mercato, alle tecnologie, alle opportunità formative, alle relazioni tra persone, agli stili di vita, alle mille contaminazioni.
E allora, alimentare un anti-europeismo d’accatto, sfruttando le paure xenofobe, le povertà diffuse, i nostalgismi e la disinformazione, è abbastanza ignobile. Si lavora per migliorare, non per azzerare; e si migliora potenziando lo spessore culturale dei popoli, non indebolendolo. Questo referendum – che un goffo David Cameron ha promesso (con incoscienza), usato (per affari di urne e di partito), poi combattuto (male), restandone travolto – segna un passaggio verso la disgregazione e l’impoverimento collettivo. E tra sterlina a picco, promesse sgonfiate e riflessioni a freddo, gli inglesi forse lo hanno già capito. Liberi di scegliere per davvero? E soprattutto, liberi adesso di rimediare?
Helga Marsala
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