Servizi aggiuntivi nei musei. Intervista a CoopCulture
Dopo anni di polemiche sul ruolo dei privati nei servizi aggiuntivi, e con il passaggio a CONSIP per la gestione delle gare, Franceschini non si lascia scappare l’occasione di ribadire un potenziale intervento pubblico all’interno di questo settore. Ne abbiamo parlato con Giovanna Barni, presidente di CoopCulture.
Sul tema dei servizi aggiuntivi Giovanna Barni, presidente di CoopCulture, è sempre stata in prima linea. In prima linea per difendere il ruolo e l’operato che i player privati hanno giocato per risanare un sistema museale poco competitivo. L’abbiamo intervistata anche alla luce delle recenti dichiarazioni del ministro Franceschini.
“Non mi rassegno. Penso si debba tornare almeno in un’opzione di scelta, alla gestione dei servizi pubblici aggiuntivi da parte dello Stato”. Queste le parole di Franceschini alla tavola rotonda Bene in Vista – Per una nuova stagione dei Beni Culturali. Come intendi queste affermazioni?
Ritengo che per rispondere a questa domanda si debba fare una distinzione tra il piano formale e il piano sostanziale.
Sul piano formale credo che, se l’alternativa pubblica cui Franceschini si riferiva è Ales S.p.A., mi risulta che, finché vige il Codice dei Beni Culturali, quest’alternativa sia poco praticabile perché non riconducibile né alla gestione diretta né a quella indiretta.
E sul piano sostanziale?
Proprio sulla questione sostanziale mi farebbe piacere avviare un confronto, poiché è un tema che – a quanto mi risulta – non è stato abbastanza approfondito con il Ministero. Il punto è comprendere se allo Stato (e quindi ai cittadini) convenga o meno che questi servizi vengano espletati attraverso l’attività pubblica, o se invece sia meglio avvalersi delle professionalità, dei processi organizzativi e degli strumenti tecnologici che i privati hanno sinora maturato.
A partire dalla Legge Ronchey, attraverso i servizi aggiuntivi è stata creata nuova occupazione e nuove professionalità, innovazione, e sono stati apportati passi avanti significativi sulla qualità dell’accoglienza nelle strutture museali. Prima dell’avvento dei privati, gli unici che espletavano un sistema di front-office erano i custodi, che lavoravano in biglietteria, alla vigilanza e all’accoglienza; non esistevano professionalità specializzate e diversificate per funzioni di front-office e back-office, tecnologie, sistemi innovativi di fruizione. Non c’era assolutamente nulla che potesse avvicinare i nostri musei agli standard internazionali.
Qual è il tuo punto di vista sulla questione?
Ritengo che, prima di sostenere l’alternativa pubblica, forse sarebbe stato meglio far nascere un confronto in grado di mettere a fuoco l’idea che bisognava migliorare, anche correggere ove necessario, e magari espandere il rapporto con i privati specializzati, armonizzandolo con un accentuato ruolo pubblico di regia, programmazione strategica e controllo dei risultati, che mi pare sia anche uno degli obiettivi dell’attuale riorganizzazione del sistema museale nazionale.
Vorrei approfondire questo punto del rapporto con il privato. Negli ultimi anni infatti mi è parso che questo rapporto sia stato un po’ bipolare: da un lato il Ministero ha avuto un atteggiamento mendicante nei confronti del privato come mecenate, mentre l’atteggiamento è stato piuttosto inquisitorio nei confronti dei privati che partecipano (con il proprio lavoro) all’offerta culturale italiana. Cosa ne pensi?
Con riferimento a quest’ultima categoria, sicuramente il rapporto è stato segnato da un pregiudizio nei confronti dei privati che operano in questo settore. Pregiudizio che si fonda su due elementi che vorrei chiarire: il primo è il caso proroghe seguite alla revoca delle gare del 2010, interrotte dal MiBACT e non aggiudicate; l’altro è derivante dalla struttura sostanzialmente oligarchica di questo mercato.
Questi fattori non dipendono dal privato, che anzi subisce queste condizioni dettate da uno scenario la cui costruzione spetta all’attore pubblico. Io sono offesa perché subiamo da diverso tempo delle critiche basate non su fatti sostanziali ma su numeri paradossali (come l’ultima accusa di una certa stampa di rubare quasi 50 milioni dell’incasso del supplemento mostre al Colosseo) e su pregiudizi che accusano gli stessi concessionari delle proroghe concesse dalle amministrazioni (di cui molte anche in perdita) e del loro numero limitato (che è invece dovuto principalmente alle tutto sommato piccole dimensioni del settore e a una poco lungimirante azione di espansione da parte dello stesso Ministero, che fino ad oggi ha utilizzato gli stessi modelli di gestione e vincoli presso i grandi e i piccoli o piccolissimi siti, senza valutarne la sostenibilità).
Per questo dici che il provato “subisce” questa situazione?
Non solo. Sono preoccupata anche perché l’assenza di regole certe e di relazioni pluriennali stabili ci impedisce di sviluppare pienamente – mettendo a frutto l’esperienza acquisita e le relazioni consolidate con gli intermediari della domanda – nuovi e necessari modelli di partecipazione alla valorizzazione dei beni comuni, nuove opportunità di occupazione qualificata per i giovani, nuove occasioni di investimento per la crescita della competitività dell’impresa cooperativa italiana in ambito turistico-culturale.
Con il Paese in sostanziale stallo, con la disoccupazione giovanile che non accenna a diminuire, con il calo dell’industria produttiva, sembra che le uniche risorse rimaste all’Italia siano proprio quella del turismo, dei beni culturali e dei musei. Con riferimento a questi ultimi, pur essendo il ruolo del privato molto limitato rispetto all’insieme di attività, ho la sensazione che il clima tenda a posizioni di esclusione. Temi che si possa ritornare alle condizioni ante-Ronchey?
Mi auguro di no e sono fiduciosa. Questo è un Paese che detiene una risorsa che non è solo quella dei beni culturali, ma anche e soprattutto la capacità e la competenza necessarie perché questi beni culturali possano fornire un valore aggiunto (nuovi canali di promozione e accessibilità, nuove modalità di fruizione) con effetti sia diretti (occupazione e gettito allo Stato) che indiretti (la relazione con i settori del turismo con i servizi di mobilità, accoglienza e ospitalità , dell’innovazione tecnologica ma anche dell’educazione e della formazione, con le università che potrebbero ad esempio nutrire e monitorare le attività didattiche).
Tutta questa filiera è un valore aggiunto per l’intero Sistema Paese, e pensare di avviare un nuovo percorso piuttosto che migliorare il livello di cooperazione con il privato e favorire sui territori una catena del valore sarebbe secondo me un errore. L’interesse pubblico, la produzione e la valorizzazione culturale, purché nel rispetto delle norme e degli obiettivi che sono definiti dall’amministrazione pubblica, può e deve essere un percorso condotto in collaborazione con il privato, imprese, cittadini e comunità, come sostiene la stessa Convenzione di Faro. Confinare questa partecipazione del privato solo al ruolo di mecenatismo è sicuramente limitante, se non incoerente con la visione europea.
Per svolgere servizi di questo tipo, per fare in modo che un determinato tipo di attività possa avere successo, non servono soltanto gli storici dell’arte o gli archeologi, ma serve un lavoro di staff, che comprenda ad esempio anche attività di call-center e di contabilità specializzata, di social media marketing e marketing territoriale, di promozione delle vendite attraverso le nuove tecnologie. È un successo che deriva da un insieme di competenze aziendali, alcune delle quali estremamente innovative. Se ogni singolo museo si dovesse dotare di un tale sistema di competenze, sarebbero veramente poche le strutture in grado di permetterselo.
Le famose economie di scala, insomma. Cogli un aspetto importantissimo del discorso. Il privato è in grado di generare economie di scala anche grazie a una struttura in materia di diritto del lavoro che permette di ottimizzare l’impiego di risorse. Io non credo che il MiBACT possa, nel medio periodo, avvalersi delle professionalità adeguate nei modi e nelle misure necessarie per espletare direttamente servizi aggiuntivi su larga scala. È possibile, e questo sarebbe un grave errore, che quest’interesse sia, secondo un approccio piuttosto miope, concentrato su quelle poche strutture che generano flussi positivi, e vale a dire i soliti noti del sistema museale italiano. Se così fosse, tuttavia, lo Stato smetterebbe di attuare una politica culturale per adottare invece un atteggiamento antieconomico. In questo modo toglierebbe al privato le economie di scala (eliminando le fonti di reddito grazie alle quali si sostengono anche attività non remunerative, come quelle dei servizi aggiuntivi nei musei minori), con il risultato di una perdita secca di benessere subita dalla collettività.
Stefano Monti
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