La cultura a Roma. Intervista all’assessore Luca Bergamo
Da una parte sembra asserragliato con la squadra dei suoi collaboratori nel suggestivo fortilizio dell'assessorato, affacciato sul Teatro di Marcello. Da un'altra parte pare invece l'unica figura di un'amministrazione a tratti inquietante con la quale poter imbastire dei ragionamenti degni di questo nome, sicuramente l'unico dotato di una consistenza intellettuale multiforme, di un’esperienza amministrativa e di una lucida visione politica, condivisibile o meno che sia. È Luca Bergamo, terzo assessore alla Cultura a essere intervistato per la nostra inchiesta, dopo quelli di Torino e Milano.
Luca Bergamo è da qualche settimana ancor più coinvolto nelle faccende che riguardano la città di Roma: il suo ruolo è più che raddoppiato e ora è, oltre che assessore alla Cultura, anche vicesindaco della Capitale. Ruolo che catalizza responsabilità e impellenze ancor più necessarie laddove il sindaco è incarnato da una figura borderline come quella di Virginia Raggi. Ciononostante, siamo riusciti a sottrargli ben due ore di un venerdì mattina di metà gennaio (“Avete battuto il record di lunghezza, voi di Artribune“, ha scherzato alla fine della “tortura”) per parlare ad ampio spettro di cultura come dispositivo civico e di governo. Lo abbiamo fatto in un momento peculiare rispetto all’attività di Bergamo presso il Comune, nel momento immediatamente successivo all’approvazione di una fondamentale delibera che ridisegna topografia e geografia delle istituzioni culturali capitoline e che costituisce il plinto operativo di un’azione di governo che nei mesi precedenti era stata percepita come imbalsamata. Adesso i presupposti ci sono e ogni scusa viene meno. Il momento ideale, in definitiva, per una lunga intervista nell’ambito della nostra indagine sugli assessori alla cultura italiani. “Ero in Kosovo a lavorare per l’organizzazione europea di cui ero segretario, mi fanno sapere che su segnalazione di Tomaso Montanari c’è un interesse a me da parte di Virginia Raggi che si apprestava al ballottaggio, torno a Bruxelles e non trovo alcuna chiamata. Il giorno dopo, però la chiamata arriva. Torno a Roma, c’erano tante persone, espongo le mie idee, rispondo ad alcune domande, alla fine c’è un lungo applauso“. Così Luca Bergamo racconta la sua iniziazione ad assessore alla Cultura nella Giunta di una Virginia Raggi che pochi giorni dopo quel colloquio stravincerà le elezioni.
Partiamo dall’inizio. Come nasce Luca Bergamo e il suo rapporto con l’amministrazione romana?
Stiamo parlando del 1994, l’anno in cui Francesco Rutelli mi chiamò al Comune.
All’epoca che facevi?
Dopo l’Olivetti, lavoravo come esperto esterno all’Autorità per l’Informatica nella Pubblica Amministrazione ed ero considerato molto qualificato nella progettazione dei sistemi della conoscenza.
Quindi si trattò di un incarico organizzativo, tutt’altro che “culturale”.
Esatto. Venni chiamato per collaborare alla riorganizzazione del Comune di Roma, per occuparmi di personale. All’epoca il Comune aveva qualcosa come 39mila dipendenti diretti, quasi il doppio di oggi. La città era stata commissariata dopo Mani Pulite e il commissario che se n’era appena andato aveva firmato un accordo sindacale secondo il quale tutti i dipendenti dopo le 14.30 erano pagati con un’indennità da “orario disagiato“. All’epoca erano tutti dipendenti del Comune, da quelli che aggiustavano le bandiere alla centrale del latte fino ai bidelli, che avevano però l’orario di lavoro equiparato a quello delle scuole, dunque tutti i servizi di lavoro erano fatti in straordinario…
Immagino che fu straordinario anche il lavoro di riorganizzazione in quegli anni.
Fu un mandato tecnico, ma in realtà molto politico, c’erano rapporti sindacali da tenere, introducemmo l’orario continuato dei dipendenti pubblici, nacque la società Multiservizi che a prezzi molto inferiori garantiva un’operatività che ci costava meno rispetto al pagamento degli straordinari.
Però poi, dopo non molto, hai iniziato a occuparti di cultura.
Dopo un anno e mezzo di consiliatura Rutelli, siamo dunque nel 1995, passò una norma che consentì ai comuni di aumentare il numero di assessori nelle Giunte. A Roma così si costituì un assessorato alle politiche educative e ai giovani, una cosa che non c’era mai stata.
E tu eri ancora giovane…
All’epoca aveva avevo 33 o 34 anni. E venni chiamato a collaborare.
Nacque in quegli anni il progetto Enzimi, che sovvertì completamente il modo con cui ci si rivolgeva ai giovani e alla produzione creativa.
La prima edizione è del 1996. L’abitudine all’epoca era fare progetti rivolgendosi direttamente ai referenti (quando si parlava di giovani ci si rivolgeva “al disagio“). Noi volevamo fare una piattaforma delle arti e dei mestieri e mescolammo scuole professionali, prodotto creativo e consumo culturale.
Vedi similitudini tra quegli anni e quelli di oggi?
Anche all’epoca c’era un indebolimento del sistema dei partiti. E ci fu la capacità di un partito, il PDS, di fare un passo indietro e candidare una figura esterna. Allora i partiti avevano una grande presa sulle giunte e invece tecnicamente la giunta del primo Rutelli ha dei paralleli notevoli con la giunta che ha fatto Raggi. Ci sono anche similitudini nelle difficoltà finanziarie.
E le differenze principali?
Il modello di sviluppo globale basato su consumo e indebitamento privato è finito dopo la crisi del 2008. Si è trattato di una corsa a indebitarsi che riguarda i privati cittadini, le amministrazioni locali e pubbliche, ma anche le “istituzioni” private: molto di quello che succede a Roma oggi – e se ne parla pochissimo – è causato dall’enorme debito accumulato dalla Banca di Roma / Capitalia. E molte scelte, urbanistiche e finanziarie, si compiono anche per tamponare questo aspetto. L’altra grande differenza è che si potevano inserire nell’amministrazione, da fuori, persone esterne (possibilmente di qualità) che all’epoca ci permisero di innescare una spinta al cambiamento. Anche perché c’era un personale comunale con un’età media molto più bassa. Oggi questo è impossibile e molto diverso: macchina amministrativa vessata, compromessa, anziana e impossibilità di inserire persone da fuori per via delle nuove norme e del blocco del turn over.
Negli Anni Novanta poi non avevate gli occhi addosso da parte della magistratura e dei controlli che ci sono oggi nei confronti di chi amministra.
Esatto. In Italia si sono sempre fatte troppe leggi. Ne deriva che qualsiasi decisione amministrativa si intraprenda, è passibile di essere messa sotto accusa interpretando l’impianto normativo in maniera diversa. Su questa anomalia si sono succedute anche molte frodi nei confronti del pubblico, frodi sulle quali per anni la magistratura non ha proceduto. Oggi quest’attenzione c’è e quindi ogni dirigente che firma un provvedimento sa che da qualche parte c’è una norma che lo può mettere in difficoltà dal punto di vista legale. Se questo Paese non si mette a fare non una semplificazione, ma una riscrittura e una cancellazione di tonnellate di leggi, realtà complesse come Roma non possono uscirne: non si capisce perché ci si sia impelagati su una riforma dello Stato come quella che è stata proposta in questi anni; se non si parla di riforma della burocrazia, il dibattito è parzialmente ridicolo. Ovvio poi che, nel bordello cosmico di Roma e senza un patto con lo Stato e senza una legislazione specifica, tutto si accentua. Bisogna smetterla di far finta di non riconoscere questa storia, altrimenti si dimostra da parte di questo Paese l’incapacità di guardare oltre il proprio naso.
Mettiamo tra parentesi le riflessioni di sistema e nazionali e torniamo a Roma e al Luca Bergamo che si struttura come manager pubblico.
Dopo due edizioni di Enzimi creammo Zone Attive. Era una società a totale partecipazione pubblica che ci permetteva di essere più efficienti, più veloci e di non disperdere le competenze che si creavano nell’organizzazione degli eventi coinvolgendo fornitori esterni. Partimmo che il finanziamento pubblico era il 95%, quando andai via, nel 2004, era il 50%. Col fatturato raddoppiato. Negli anni non ci si occupò più solo di politiche giovanili in senso stretto: Zone Attive diventò un capace strumento di progettazione del Comune.
Però poi te ne vai, quasi sul più bello direi: in pieno boom veltroniano, quando, anche se pare impossibile oggi, Roma era lanciatissima, sembrava destinata a superare Milano su tutti gli indicatori e a collocarsi come destination culturale e creativa occidentale di prima grandezza.
Ho sempre interpretato il ruolo di Zone Attive come strumento di progettazione culturale. Un soggetto che facesse politica culturale e la realizzasse. Quando si è iniziato a cercare di farne uno strumento meramente realizzativo non mi è interessato più, non c’erano secondo me più le condizioni.
Non sarà stato questo l’unico motivo per cui hai sbattuto la porta e dopo dieci anni hai lasciato tutto quello che avevi costruito.
Avevo immaginato delle politiche che dovevano essere diffuse. Enzimi stesso doveva essere la punta dell’iceberg. Però non siamo mai riusciti – e ci abbiamo provato – a creare il sotto dell’iceberg. In qualche maniera lo stimolo a creare una struttura veniva smantellato, anche per questioni di implicita conflittualità col Dipartimento cultura. Quando è stato chiaro che la città andava in una direzione di forte utilizzo della cultura come oggetto di marketing, la cosa per me non è stata più sostenibile. A quel punto sono andato a dirigere il Glocal Forum e poi a costituire l’Agenzia per i Giovani formata dall’allora Ministro alle politiche giovanili Giovanna Melandri e poi, mandato via dal nuovo ministro Meloni, come segretario generale, all’agenzia Culture Action Europe, che mette insieme qualcosa come 60mila organizzazioni culturali con l’obiettivo di fare lobbing presso l’Unione Europea.
Insomma la solita solfa che nel 2001 arriva Walter Veltroni e tutto diventa marketing e comunicazione…
Non è così semplice. Anzi, il cambio di approccio avviene molto prima, già a metà degli Anni Novanta, quando è percepibile che la mazzata presa dai partiti per via di Tangentopoli era stata assorbita. La grande spinta che ha prodotto un’enorme innovazione è in realtà durata i primi tre anni di Rutelli. C’era un’ondata che partiva addirittura da vent’anni prima, dal grande convegno sui Mali di Roma del 1974 e che incontrava per altri versi la wave de Le Mille Luci di New York di Jay McInerney del 1984, che da una parte spingeva al cambiamento e all’innovazione e dall’altra convinceva che tutto avrebbe sempre girato meglio fra turismo e fuochi d’artificio sulla base di un meccanismo basato sul consumo privato. Poi ti accorgi che questo crea danni enormi: l’economia turistica non crea distribuzione, non diffonde conoscenza e, concentrando il focus su pochi luoghi della città, tende a stressarli. Ecco quello che rimprovero a Franceschini e alla sua riforma che a Roma mette il faro eccessivamente su Fori e Colosseo, rischiando di lasciare indietro il resto.
Va bene, ma la concentrazione del turismo in alcune zone specifiche è un problema mica solo romano. Succede lo stesso a Barcellona, a Parigi o a Londra…
Ma quelle città hanno una trama economica completamente diversa. E hanno iniziato a essere pensate come città centinaia di anni prima. E comunque non si capisce perché la politica debba continuare a guardare sempre le stesse cose (il turismo, il mondo delle costruzioni…) e a ignorare invece le reti dell’artigianato e il network della conoscenza, delle università, delle accademie straniere. Tra l’altro questi sono attori perfettamente in grado di giocare un ruolo sul nuovo palcoscenico del post capitalismo.
Già, peccato che a Roma il network degli artigiani stia boccheggiando proprio perché è fermo il mercato immobiliare. Ad ogni modo, a proposito di capitalismi, il tuo assessorato è sempre stato pesante dal punto di vista economico, con budget elevati. Fra tagli e crisi, a che punto siamo arrivati?
Nel 2017 dovremmo fermare l’emorragia. Considerate le voci tutte assieme, siamo intorno ai 100 milioni, che però variano rispetto al passato in termini di pesi perché molte cose che erano in capo alla società in house Zètema tornano sotto la diretta gestione dell’amministrazione. Zètema tornerà a svolgere la cosa per cui è più qualificata: fare il braccio, non la testa. Il pensiero e l’ideazione devono restare in capo all’amministrazione.
Sono passati sette mesi. I momenti di difficoltà sono stati tantissimi, qual è stato il momento più bello?
Sicuramente LaFestaDiRoma del primo giorno dell’anno. La grande festa sui ponti lungo il Tevere, il fiume al quale la città volta tradizionalmente le spalle, il fiume che, a parte William Kentridge, è umiliato dallo scempio delle bancarelle d’estate. Lo abbiamo riempito di produzione artistica coinvolgendo una pluralità di soggetti e istituzioni culturali in un palinsesto complesso, una sfida mai vista che ora proveremo a replicare in versione estiva, in agosto. E poi, con la stessa logica, stiamo pensando a interessare altre parti della città: la zona di Largo Argentina fino a Corso Rinascimento, quella circostante il Circo Massimo, sempre con progetti di pedonalizzazioni temporanee. In modo anche da fare qualcosa che inizia a mezzanotte lì e poi si sposta lungo il fiume. Questa dimensione di “festa cittadina” ha degli elementi di sviluppo e delle potenzialità di crescita molto forti. E poi magari la portiamo sui ponti romani che non sono a Roma, visto che l’Impero ha “gettato ponti” in tutta Europa e alcuni sono ancora lì. Abbiamo trasformato lo spazio urbano in un set, un’idea nata qui, tra noi, col mio staff. E poi realizzata grazie a tanti professionisti.
Tutto questo ha molto a che fare con il turismo. Sei contento o deluso del fatto che il tuo assessorato sia “solo” alla cultura e che il turismo sia stato assegnato all’assessorato alle attività produttive?
Sono favorevole a questa divisione. Si tratta di un’impostazione in linea con la mia filosofia. Uno degli errori fatti in questi anni è stato pensare la cultura troppo in funzione del turismo e la divisione è indovinata nel senso di riequilibrare questa anomalia. Dev’essere la programmazione culturale a battere la strada, il turismo viene di conseguenza. Non viceversa.
In questi mesi ti sei speso molto per le esperienze anomale di gestione culturale degli spazi: il Teatro Valle, il Maam, il Cinema Aquila. La sensazione è che a Roma, se ti fai in quattro per fare cultura stando nelle norme, hai meno considerazione di chi occupa illegalmente, gestisce economie sommerse e al nero e si impossessa del patrimonio comune senza passare da bandi o processi che premiano il merito e la qualità. È solo una sensazione?
Vero che ho parlato di queste realtà, ma l’equazione non è corretta. A fronte di questo abbiamo ad esempio pensato a una riduzione della tariffa rifiuti per le librerie.
Ma queste sono mancette! Da una parte si dice che uno spazio occupato è “il modello” e dall’altra si lavora, forse, chissà, semmai, alla riduzione di un’imposta. Un imprenditore culturale come un gallerista, che si fa un mazzo tanto in questa città per internazionalizzare, investire e promuovere lottando con tasse e burocrazia, sente l’attenzione dell’amministrazione o la vede più attenta a chi sistematicamente viola le leggi?
Magari sulle gallerie d’arte ancora non abbiamo messo attenzione, ma il sistema economico sano e legale non è fuori dalla nostra attenzione. Stiamo lavorando sulle autorizzazioni sul cinema, le riprese e il pubblico spettacolo ad esempio, e così ridisegniamo un intero settore che è un indotto significativo. In questo ambito, se riusciamo a fare una seria film commission le cose cambiano e funzionano meglio e con un disegno.
Parliamo di teatro. In generale e nello specifico del Teatro Valle.
Partono i lavori. Con la speranza che alcune porzioni della struttura possano essere usate anche durante il cantiere. E poi c’è, nella delibera, tutto il ridisegno dei teatri. Il Teatro di Roma diventa un hub che ha sotto di sé non solo il Teatro Argentina e il Teatro India (oltre che eventualmente il Valle) ma anche tutti gli altri palcoscenici più piccoli che avranno ciascuno una propria specializzazione e vocazione, da Villa Torlonia al Globe Theater di Villa Borghese, con l’obiettivo non secondario di stimolare la produzione e sollecitare le compagnie teatrali della città. E con un’ottica – ma questo vale anche per i musei – di ragionare in termini di redistribuzione, non tanto delle risorse finanziarie quanto degli stimoli culturali, dei pubblici. Non esisterà più “il pubblico del Teatro Argentina”, questo senza mai entrare in concorrenza con l’offerta culturale privata, anzi fungendo da sistema. Facendo un Teatro di Roma che sovraintende a otto strutture, saniamo anche un’altra anomalia degli ultimi anni, ovvero quella della bulimia di spazi e strutture che si sono via via create e stratificate.
Parliamo di architettura e trasformazione urbana. Si tratta dello slancio grazie al quale i grandi sistemi urbani prosperano e competono tra loro, a Roma è drammaticamente tutto fermo e la Giunta di cui sei vicepresidente non fa che bloccare progetti che potrebbero dare una speranza e un respiro a progettisti, professionisti, ingegneri, architetti e appunto artigiani.
Ci sono tanti casi diversi. Il progetto del Museo della Scienza è diverso dalle Torri dell’Eur e diverso dal nuovo Stadio della Roma. Il punto è che ci troviamo con progetti che stanno fuori dalla logica che dicevo prima, che vede un radicale cambiamento del sistema economico, finanziario e di mercato. E poi, lo ribadisco, gran parte di questo caos deriva dai disastri che ha lasciato il Gruppo Capitalia (poi confluito in UniCredit, che non ha colpe) su questa città. Molte di queste operazioni immobiliari, discutibili, sono state pensate per tamponare scelte bancarie sbagliate: è una delle malattie sotterranee di questa città. Magari mettere qualche punto serve anche a far emergere queste cose.
Bloccare gli sviluppi urbanistici del futuro perché in passato si sono fatti degli errori? La cosa perplime. Nel progetto del nuovo Stadio della Roma, ad esempio, si trattano delle architetture firmate da progettisti di prim’ordine come Daniel Libeskind in termini di “cubature” più o meno da tagliare. Tu partecipi alle riunioni propedeutiche allo svolgimento della conferenza dei servizi: questa cosa non ti disturba per nulla? Non ritieni che la presenza di grandi architetti in città e nuovi skyline possano dare una scossa a questo stato di depressione diffusa, come è accaduto a Milano?
Sono un grande appassionato di architettura contemporanea. Dopodiché ritengo che le perplessità sulle urbanizzazioni circostanti lo Stadio della Roma siano legittime, benché nessuno ce l’abbia con Libeskind. Per quanto mi riguarda, l’architettura contemporanea è perfino più importante del teatro.
Al di là dei tanti movimenti che state facendo con i musei che cambiano perimetro grazie alla delibera, il 2017 vedrà l’arrivo in città di nuovi spazi culturali privati: la Fondazione Alda Fendi al Velabro e la Fondazione Cerasi a via Merulana. Ci hai già lavorato su?
Giusto buttato un occhio velocemente. Si tratta comunque di opere che necessitano ancora di qualche tempo. Presto andrò a visitare la Fondazione Cerasi. Senza dubbio stiamo parlando di una parte buona di città.
Sempre a proposito di privati: a primavera arriva la grande scultura permanente di Giuseppe Penone a largo Goldoni grazie alla Maison Fendi. Ci saranno sicuramente polemiche, visto che siamo nel cuore della città storica. La tua posizione?
L’idea che non si possa mettere l’arte contemporanea perché c’è la storia non è mia. Se c’è una preesistenza ci può stare una sussistenza. Si tratta di mecenatismo, che ben venga. Anzi, grazie Fendi.
Il Ministro Franceschini ha preso delle decisioni abbastanza unilaterali sulla suddivisione della Soprintendenza e dell’area archeologica centrale, creando il Parco del Colosseo e relegando ad ancillare il ruolo della Soprintendenza. Poi ha annunciato l’ingresso a pagamento per il Pantheon. Tutte cose che ti hanno visto aspramente contrario. Il rapporto con Franceschini è compromesso?
C’è dibattito, com’è giusto che sia. Magari si è in disaccordo su alcune cose, ma su altre si collabora. Non sarebbe giusto né possibile che il Ministero andasse per conto suo anche su altre questioni. Penso al Cerimant di via Prenestina, dove il CIPE ha stanziato attraverso il Mibact 40 milioni e dove l’operazione per la conversione culturale di uno grande ex spazio militare abbandonato può essere molto interessante.
A Roma, oltre alla Soprintendenza di cui sopra, c’è una Sovrintendenza, con la “v”. Un organo comunale che ha una derivazione dalla nascita, centinaia di anni fa, dei Musei Capitolini e che è di supporto (o di ostacolo) alle attività dell’assessorato e del Dipartimento Cultura. La Sovrintendenza, come Zètema, è un’altra “anomalia” che resterà al suo posto.
Io penso che alla fine del mio mandato nulla resterà come prima. Dopodiché la Sovrintendenza ha dentro tante competenze ma anche tante funzioni che fanno fatica a integrarsi, competenze amministrative, tecniche. Innanzitutto queste integrazioni devono avvenire. Ci sono cambiamenti necessari da fare e sono tutti prefigurati nella delibera 126.
Chiudiamo tornando appunto alla delibera 126 e al suo funzionamento. A leggerla è una riorganizzazione, ma le conseguenze saranno operative, produttive, culturali. Riusciamo a fare degli esempi di cascami diretti di questa riforma?
Oggi Palazzo delle Esposizioni e il Macro fanno mostre. Domani Palazzo delle Esposizioni e Macro fanno produzione, non sono più solo dei sistemi di distribuzione. Poi cambia il tema: non è più come il contemporaneo interpreta il passato, bensì come il contemporaneo guarda al futuro, guarda la scienza, guarda la tecnologia. E poi c’è una cosa che nel provvedimento è scritta brevemente ma è molto importante: questo polo del contemporaneo si lega al sistema delle biblioteche, con l’ambizione di far diventare la rete di queste un network diffuso di sensori sparsi nella città, di stimoli continui, di sollecitazioni, di idee, suggestioni, vedute, emergenze. Stiamo costruendo un oggetto che a Roma non c’è, un mestiere che non esiste, che non fanno neppure Maxxi o Galleria Nazionale, e infatti cerchiamo di coinvolgerli.
Con quale logica dal punto di vista del pubblico?
Il pubblico frequenterà il Polo del Contemporaneo non per vedere cose, ma per vivere un’esperienza.
EPILOGO. LA NUOVA GEOGRAFIA DEGLI SPAZI CULTURALI
Si chiama “deliberazione 126” ed è stata approvata dalla Giunta Capitolina presieduta da Virginia Raggi e vicepresieduta da Luca Bergamo durante le scorse feste natalizie. Si tratta della delibera attorno alla quale si struttura tutta la nuova offerta culturale della città così come esce da un ridisegno complessivo della topografia, della toponomastica e della geografia dei tanti (troppi?) spazi in capo all’amministrazione comunale.
Proviamo a sintetizzare qualche punto saliente: nasce il Polo del Contemporaneo, fa capo all’azienda speciale Palaexpo e ha sotto di sé il Palazzo delle Esposizioni, il Macro (in entrambe le sue sedi), la Pelanda e lo spazio espositivo dell’Ara Pacis. L’azienda speciale Palaexpo perde così la gestione della Casa del Jazz che, più coerentemente, finisce sotto la Fondazione Musica per Roma, che ovviamente continua a gestire l’Auditorium Parco della Musica. L’associazione Teatro di Roma, oltre al Teatro Argentina e al Teatro India (con in più il palcoscenico del Teatro Valle), dovrà ora occuparsi delle ex scuderie di Villino Corsini di Villa Pamphili, del Globe Theatre di Villa Borghese, del Teatro del Quarticciolo, di quello del Lido e di quello di Tor Bella Monaca. E del teatro di Villa Torlonia. Il tutto da approvare in maniera operativa entro il 1° aprile 2017.
Massimiliano Tonelli
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #35
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