Italia. Perché non ha senso investire in cultura
Che valore ha, in Italia, investire capitali nella cultura? E perché a essa è collegato fin troppo spesso il termine “finanziamento”? Qualche riflessione sul rischio che, un’ottica di questo tipo, contribuisca a rendere la cultura un terreno per pochi.
Che senso ha investire in cultura? Sono anni che tutti sostengono l’importanza, la validità economica e finanziaria degli investimenti culturali: prima hanno iniziato le piccole e grandi associazioni culturali poi, via via, il concetto di investire in cultura ha acquisito connotati sempre più istituzionali, prima attraverso l’affermazione del concetto di Responsabilità Sociale di Impresa e poi addirittura con l’Artbonus, con il quale, se vogliamo tradurlo in poche parole, lo Stato (che ci tassa e ci tar-tassa per servizi a dir poco mediocri) chiede ai cittadini e alle imprese di “finanziare” la cultura.
Ma perché è necessario farlo? E perché se tutto ciò che viene chiesto è “finanziare” (in inglese, il termine “charity” rende bene l’idea) tutti parlano di investire? Quali ritorni ci sono?
Ritorni diretti o indiretti (o addirittura i famosi “indotti”)? Chi li ha misurati? Qual è il ROI (return on investment) della cultura?
Stando a ciò che si legge in giro, al netto delle chiacchiere, il ROI è benessere sociale. Ma c’è una grande contraddizione in termini in tutto ciò.
L’investimento implica che il soggetto X rinunci oggi a parte dei propri soldini per ricevere domani (in un tempo definito) più soldini di quanti abbia dato.
Siamo davvero sicuri, dunque, che in Italia, si investa in cultura?
Si chiede ai privati di rinunciare a parte dei fondi che legittimamente hanno a disposizione fornendo in cambio lo status di “imprenditore illuminato”. In altri termini, una sorta di oligarchia intellettualoide (il mondo della cultura), dall’alto dei valori di cui si crede portatrice, accetta di ricevere del denaro per poter fornire uno status.
Questo stride un po’ con l’immagine di cultura che vorremmo avere.
“La cultura che vogliamo genera ricchezza, perché altrimenti non si possono pagare i giovani talenti e quindi non c’è evoluzione del settore, e quindi non c’è ricambio generazionale“.
La nostra cultura, quella in cui si investe e non solo si spende, è una cultura che conosce gli strumenti tecnici e fiscali per minimizzare l’esborso monetario reale, è una cultura che con i fondi che riceve crea opportunità di business e nuovi servizi (dalla cui vendita chi ha investito potrà ricevere parte dei profitti), è una cultura che si siede allo stesso tavolo degli sviluppatori immobiliari e dei referenti della finanza per poter riqualificare interi quartieri (immobiliari e sociali), per generare una condizione di reciproco vantaggio. È una cultura che fa mercato, che genera ritorni diretti, che riesce a spostare flussi di persone talmente grandi e talmente “engaged” da risultare un investimento appetibile per tutti.
La cultura che vogliamo genera ricchezza, perché altrimenti non si possono pagare i giovani talenti e quindi non c’è evoluzione del settore, e quindi non c’è ricambio generazionale, e quindi non è parte di un sistema meritocratico, ma semplicemente una fitta rete di contatti personali e professionali. Ed è proprio questa la cultura che invece abbiamo in Italia: una cultura di erogazione, che guarda con sospetto l’investimento pur saccheggiandone il linguaggio.
Ma non basta. Oggi più che mai è necessario togliersi di dosso quello snobismo che ancora è presente persino nei giovani studenti universitari, che credono nella cultura come in un ideale sociale. Ma gli ideali sociali, negli ultimi secoli, non hanno fatto molto bene all’umanità.
Prima lo capiamo, prima saremo in grado di trasformare questa visione piccolo-borghese di cultura in un settore in cui non solo valga la pena, ma sia anche giusto “investire”.
– Stefano Monti
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