Critica viva (IX). Raccontare l’identità
Sono molteplici e tutti ugualmente essenziali gli aspetti che compongono l’identità di un individuo o di un gruppo. Per descriverli e apprezzarli è necessario non averne paura e abbracciarli nella loro interezza. Evitando l’appiattimento su formule preconfezionate.
“All the stuff we know we never want /
Seems like we get it anyway /
Safe to say it isn’t really wrong /
Not when we know we only throw it all away”
The Cure, The Hungry Ghost (2008)
Quella durezza dolce conquistata a caro prezzo, conferitaci dal trattamento feroce e degradante che ci hanno riservato le generazioni precedenti, quella peculiare luce nello sguardo che alcuni di noi hanno – è qualcosa che non ci può essere strappato, qualcosa che non ha prezzo perché non vale nulla.
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Museo Archeologico Nazionale, Atene, 9 aprile. “Odissea”: il viaggio della vita – l’incessante sforzo dell’uomo per espandere i propri orizzonti, per contrastare la fragilità e la precarietà della propria esistenza con l’aiuto dell’amore e dell’azione creativa.
In volo da Atene a Roma, 10 aprile. Le korai e i kouroi (VII-V sec. a.C.) – e persino le figurine cicladiche (2800-2300) – erano tutte dipinte. In colori vivaci, che riproducevano fedelmente la realtà e allo stesso tempo ricoprivano un valore simbolico (ad esempio la posizione sociale del personaggio ritratto). Rosso blu verde. L’arciere persiano a cavallo indossa addirittura i variopinti pantaloni d’epoca – decorati a rombi gialli, rosa, verdi, azzurri. È inimmaginabile l’esplosione di colori – abbagliante; destabilizzante – offerta da queste figure e da queste scene sull’Acropoli. Un’idea del classico tra l’altro assolutamente contraria a quella che abbiamo introiettato ed ereditato – contraria a dieci secoli di successivi classicismi. Il classicismo è, in effetti, l’antitesi del “classico”: gli antichi non andavano affatto in cerca dell’ideale (né in arte, né in filosofia) – ma della realtà e della spontaneità. Della vita. Non erano cioè interessati a depurare – ma a organizzare; non volevano sterilizzare – ma riprodurre fedelmente in un ordine che favorisse la comprensione del mondo (e non di una sua immagine precostituita).
Lavorare sull’identità profonda, sommersa – concreta, umile, sincera, autentica – vuol dire lavorare anche sui traumi, sulle rimozioni, sul non-detto e non-confessato: sui dati più preziosi e nascosti, cioè, di un individuo e di una comunità. I ricordi – i sogni – le paure – i desideri – le illusioni perdute. Al contrario, lavorare su un’identità preconfezionata (ready-made, già pronta) significa evitare tutto questo come la peste – e concentrarsi invece sulla fuga, sull’illusione perenne, sulla nostalgia e sulla dissociazione dalla realtà. “In quasi un secolo questa storia dev’essere stata raccontata decine di volte da un numero limitato di persone, cinque o sei al massimo. Col tempo ha acquisito la forza di una leggenda, di una favola epurata dei difetti, levigata da anni di manipolazioni. Si è indurita come l’argilla. Ha finito per asciugarsi e diventare friabile. Mi affretto a trascrivere sulla carta prima che si sbricioli e sparisca per sempre. Com’è ovvio, contiene una parte di verità. Si nutre di elementi ripescati dalla memoria e, prima, forniti dalla realtà. Ciascuno dei miei interlocutori ne riporta una versione leggermente modificata. Questa serie di alterazioni è di per sé significativa e dà a fatti minuscoli una patina, una profondità, uno spessore. Racconta a sua volta una storia, quella dell’esilio di un’immigrata costretta, come molti suoi simili, alla menzogna per sopravvivere, quella dei suoi discendenti a corto di dati certi, e anche quella del tempo che passa, dell’oblio” (Christophe Boltanski, Il nascondiglio, Sellerio 2017, pp. 56-57).
Post Scriptum. Eleonora mi ha detto una cosa bellissima a proposito di questi articoli quando ci siamo sentiti la prima volta al telefono per parlare della residenza (che, tra parentesi, si baserà tutta sul De Rerum Natura di Lucrezio: fantastico!): che questi testi costituiscono una sfida per il lettore, il quale si sente spinto ad andare fino in fondo, per vedere che succede.
Non l’avevo mai vista sotto questa luce: ma, beh, in effetti il concetto di “sfida” rappresenta bene ciò che sto tentando di fare. Rispetto molto voi che leggete (di volta in volta vi immagino post-adolescenti o adulti; artisti e critici in erba o agguerriti amanti dell’arte contemporanea; gente capitata qui sopra per caso e incuriosita o che ricerca con ostinazione proprio quel pezzo, proprio quell’informazione, proprio quell’immagine), e vorrei che quella della scrittura fosse un’esperienza ricca e gratificante anche per voi, senza essere inutilmente oscura e criptica, né fastidiosamente ampollosa: perché possiamo comprendere tutto, superare tutto – se siamo costantemente aperti e disponibili a tutto.
– Christian Caliandro
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