La riforma Franceschini e il problema della qualità
Sebbene la riforma messa in campo dal ministro Franceschini non smetta di dare ottimi frutti, il suo limite potrebbe avere a che fare con la temporaneità degli effetti positivi legati a essa. Forse, per rilanciare davvero il patrimonio culturale italiano, dovremmo dare maggiore rilievo alla qualità delle proposte, oltre che alla quantità.
Quella che passerà alla piccola storia delle istituzioni culturali del nostro Paese come la riforma Franceschini non smette, a quanto pare, di dare i suoi frutti. Anno dopo anno si registrano aumenti significativi in tutte le istituzioni culturali italiane, con casi di enorme successo anche mediatico (soprattutto la Reggia di Caserta) e qualche problema dal punto di vista giuridico (leggi, Colosseo).
Mentre si stappano le bottiglie, tuttavia, ci sono un po’ di cose di cui è necessario avere contezza e, prima che l’entusiasmo ceda all’incredulità, può essere un’ottima attitudine quella di guardare a ciò che è rimasto irrisolto, e a come si possano mettere le basi, proprio in questo periodo di grande comunicazione, per avviare delle riforme che siano in grado di garantire la crescita del sistema culturale italiano a un fenomeno solido e non solo di breve periodo.
Senza dubbio, come spesso è stato fatto, va in primo luogo riconosciuto un merito che non può essere in alcun modo negato all’attuale ministro: quello di aver portato all’attenzione pubblica il nostro Patrimonio Culturale, riuscendo ad avere quella che viene definita una “brand awareness”, che rappresenta sicuramente una parte importante dei risultati in termini di numeri che si stanno ottenendo.
“Nessun indicatore è previsto infatti per la misurazione della qualità dell’offerta culturale dei nostri istituti culturali e, data la specificità della tipologia di offerta, bisognerebbe proprio iniziare a considerare la valutazione di aspetti più qualitativi”.
La brand awareness, tuttavia, ha un funzionamento nel breve periodo, una spinta in grado di favorire i consumi ma non di mantenerli costanti nel tempo. A ciò si aggiunga, inoltre, che i risultati sono almeno in parte “dopati” dalle grandi affluenze avute in occasione degli ingressi gratuiti che, ancora una volta, rispondono a logiche legate all’event marketing. Nulla di male, ma anche l’event marketing tende a restituire risultati iniziali forti che poi tendono naturalmente a calare. A ciò si aggiunga che le curve legate alla domanda di cultura e di consumo culturale tendono a essere crescenti sia per frequenza di consumo sia per esigenze qualitative.
Se la prima caratteristica non può che essere un fattore positivo, la seconda potrebbe essere un fattore di rischio e di questo, chi si occupa dell’offerta culturale, deve sicuramente tenere conto.
Nessun indicatore è previsto infatti per la misurazione della qualità dell’offerta culturale dei nostri istituti culturali e, data la specificità della tipologia di offerta, bisognerebbe proprio iniziare a considerare la valutazione di aspetti più qualitativi.
Questo elemento è essenziale per la domanda di cultura, perché se è vero (e lo è) che a un maggior consumo corrisponde una maggiore esigenza qualitativa, è indispensabile che i nostri musei inizino a mostrare una crescita qualitativa.
Tale crescita non può essere assicurata esclusivamente attraverso il ricorso a “bandi a carattere internazionale”, ma richiede la costituzione di una struttura organizzativa efficace basata su una idonea dotazione di risorse umane, e qui è un altro nodo della questione. È ancora presto per poter trarre delle conclusioni univoche sulla riforma organizzativa del Ministero e sulla scelta di accentramento di alcune funzioni, ma è fuor di dubbio che tale assetto istituzionale per funzionare ha bisogno di maggiori risorse umane, e le leggi italiane in materia di pubblico impiego, così come le risorse che vengono destinate al Ministero, non renderanno agevole tale obiettivo.
L’ART BONUS
Questo ci porta alla terza e grande “riforma” del periodo Franceschini, e che costituisce di fatto uno degli aspetti più controversi di questo ministero: l’Art Bonus. Come ha recentemente dichiarato lo stesso ministro, l’Art Bonus è uno strumento che va sicuramente migliorato: allo stato di fatto, ha ottenuto un numero sicuramente modesto di donatori (poco più di 5000) di cui la maggior parte “anonimi”. Il motivo di tale “disinteresse” da parte dei cittadini, va detto, non è solo colpa del Ministero: Comuni e altri enti territoriali spesso mancano delle competenze necessarie ad avviare una campagna locale di crowdfunding, elemento indispensabile data la natura dei luoghi che sono stati giudicati “idonei” a ricevere donazioni spontanee. Se a ciò si aggiunge che il meccanismo, in se, si fonda su una logica fiscale inadeguata, soprattutto per le imprese, allora non stupisce che sostanzialmente l’Art Bonus sia stato utilizzato soprattutto dalle stranote fondazioni.
Lo scenario non è apocalittico, ma sicuramente è critico. L’Italia sta spingendo molto sui consumi culturali, e lo fa attraverso una politica di sostegno della domanda e altre logiche di breve periodo che possono dare luogo a effetti negativi nel medio se non vengono accompagnate da riforme strutturali più convincenti.
Ma il tempo per pensare all’impostazione di strategie è passato. Ora dobbiamo solo sperare che chi continuerà il lavoro del ministro (o il ministro stesso se verrà confermato alle prossime elezioni) sia in grado di consolidare queste azioni, e porre le basi per un programma forse meno a effetto, ma che guardi agli aspetti più strutturali del nostro meraviglioso patrimonio.
‒ Stefano Monti
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