Capricci (VI). Il primato della pratica

"Gli anticorpi sarebbero poi ridere del disastro, sputare sull’inadeguatezza propria e altrui, puntare con allegria innocente e cialtrona al capolavoro (sapendo che non verrà), ma puntare sempre lì, senza mai prendersi sul serio". Sesta puntata della serie Capricci, per la rubrica Inpratica.

Alla fine sopravvivevano solo il lavoro, la Scheggia e la prossima generazione, e così via per tutto il futuro, nessuno poteva vivere per sempre. Ma Zak li aveva svegliati tutti da una sorta di stordimento, aveva mostrato loro un nuovo modo di pensare, un nuovo lavoro, un nuovo genere di felicità” (Greg Egan, Incandescence, Mondadori 2010, p. 169).
Questi appunti si accumulano su questi quadernetti. Percolano qui sopra, su questi fogli di carta. Giorno dopo giorno, segno dopo segno… A che servono? A chi servono? (L’immagine di qualcuno, di qualche fighetto-che-la-sa-lunga, impegnato a denigrarli, a considerarli testi senza senso, frutto di una specie di distorsione innocua…) I fogli si accumulano, i giorni si accumulano – l’uno dopo l’altro, uno via l’altro – ok, sarà una “distorsione innocua” – ma anche se fosse un modo piuttosto inutile per testimoniare la “degradazione” e al tempo stesso una forma di resistenza ad essa, ovviamente destinata al fallimento, anche se così fosse non varrebbe comunque la pena di continuare?
La pratica precede la teoria, perché la contiene; non può esistere alcuna teoria senza pratica, per il semplice fatto che ogni teoria distanziata e distaccata dalla pratica tende a dimostrare se stessa, a ritrovare se stessa (la propria immagine) nella realtà del mondo, a confermare ciò che già sa e presuppone, e non – come fa la pratica – ad aprirsi alla contraddizione e alla complessità che fanno parte dell’esistente, che sono l’esistente, a rischiare (quand’anche fosse) di annullare se stessa nell’esistente, di cancellarsi per ritrovarsi poi più completa, più ricca, più adatta.
La mia pratica è questa.

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Vergogna, inadeguatezza sono l’umano.

Future is not what it used to be.
Filling the page with stuff.
Masked to look old.

Syd Mead, Concept art per Blade Runner

Syd Mead, Concept art per Blade Runner

In viaggio da Stoccolma, 13 luglio. “Anziani, prigionieri di risentimenti e paure generati da vent’anni di fatti incomprensibili” (James Ellroy, Prega detective, 1981). Il rapporto tra le generazioni fa la storia, ed è molto difficile da cogliere nella sua dimensione reale – queste due ultime, le nostre ultime due, si rivelano problematiche perché la spinta all’innovazione e alla ribellione culturale è stata a tratti soppressa, a tratti fraintesa e distorta. Sbagliare, fallire, cadere, deviare – dirottare la propria stessa attenzione, costruire oggetti e discorsi che siano imprevedibili – scegliere consapevolmente, e a volte contro il proprio interesse, la via meno immediata, la soluzione più difficile, la narrazione non lineare rispetto a quella piana, comprensibile, condivisa, piana.
È profondamente sbagliato pensare e convincersi che la ribellione (= l’avanguardia) debba essere qualcosa di ‘vecchio’, ‘stantìo’, ‘polveroso’, ‘non-adatto-ai-tempi-d’oggi’. L’ironia facile, il cinismo a buon mercato così in voga durante questi anni non sembrano proprio gli elementi-base di un buon equipaggiamento di sopravvivenza. Il cinismo porta alla sterilità immaginativa e critica; non permette di realizzare capolavori; è, in ultima analisi, stupido conformista autodistruttivo – soprattutto quando sembra intelligente e vantaggioso.

Syd Mead, Concept art per Blade Runner

Syd Mead, Concept art per Blade Runner

Brillare nel buio – stonare nel coro – dare luogo al non ordinato, al non conosciuto – dare luogo – fuoriuscire dal controllo a cui siamo tanto affezionati, fuoriuscire dal controllo che desideriamo e di cui abbiamo bisogno, senza il quale sembra che non possiamo vivere, il controllo che dà forma a ogni istante e a ogni aspetto della nostra vita.
Dell’essere esausti, ma senza aver combinato niente – dell’inconcludenza, dell’inadeguatezza – dell’avere il cuore pesante, dopo aver macinato chilometri e chilometri – del parlare alle tre di notte davanti a un pubblico di cinque persone – dell’avere un sistema di valori che pare non interessare quasi a nessuno – del pensare a Montale, a quello che ha provato durante i famigerati vent’anni – del vedersi intorno persone catturate, entusiasticamente affrante, e del non poter fare proprio niente a proposito dal momento che questo virus ha infettati gli anticorpi psichici – e gli anticorpi sarebbero poi ridere del disastro, sputare sull’inadeguatezza propria e altrui, puntare con allegria innocente e cialtrona al capolavoro (sapendo che non verrà), ma puntare sempre lì, senza mai prendersi sul serio, scherzandoci su, considerando la scrittura e le opere come semplici testimonianze dell’essere vivi in questo (pessimo, misero, volgare, nostro) momento, e dell’essere vivi in ogni momento, strumenti umani e di umanità che sempre si dissolve e sempre anela al Padre, come Frankenstein. Il Padre è il Passato, l’Uno, l’Unito, il Prospero, l’Integro, l’Adulto, il Maturo, Colui Che Sa Come Vanno Le Cose, Come Si Fanno Le Cose, Colui Che Protegge – e poi scopri che non è affatto vero, che non è affatto così. Ciò che sembravano unico e unito è invece disintegrato, frammentato, scorporato, ma così è molto più bello, interessante, speciale.

“(Sai cosa succederà se non avranno) nessun ostacolo contro cui lottare, niente da capire, niente da esplorare” (Greg Egan).

– Christian Caliandro

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Christian Caliandro

Christian Caliandro

Christian Caliandro (1979), storico dell’arte contemporanea, studioso di storia culturale ed esperto di politiche culturali, insegna storia dell’arte presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze. È membro del comitato scientifico di Symbola Fondazione per le Qualità italiane. Ha pubblicato “La…

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