Riforma Franceschini. L’opinione contraria di Renato Barilli
Il critico bolognese commenta principi ed esiti della riforma museale messa in atto dal ministro Franceschini. Sollevando una serie di dubbi sui suoi effetti.
Sono stato contrario fin dall’inizio alla riforma concepita dal ministro Dario Franceschini, volta a porre, alla testa di una ventina di musei, direttori assunti attraverso bando internazionale in sostituzione delle figure di soprintendenti e direttori che, stanti le regole vigenti, ne dovrebbero assicurare il funzionamento. È stata una riforma ispirata a un principio “consumista”, che cioè i nostri musei non incassino abbastanza, e non nata da una diversa accusa, che sarebbe legittima, circa loro eventuali errori di conduzione. Da qui la difficile scelta di figure professionali extra, ricorrendo anche all’estero.
Ma se si considerano le “regole d’ingaggio” della schiera di figure istituzionali della nostra rete museale, queste non escludono certo il capitolo degli introiti attraverso la biglietteria. Se in qualche caso un simile fondamentale aspetto non ha funzionato, come in ogni azienda, si devono rimuovere le persone che non siano risultate all’altezza. Si dirà che il sistema statale, anchilosato, non prevede licenziamenti per scarso rendimento, ma esiste la via del “promoveatur ut amoveatur”. Non è credibile, insomma, che il ministero non riuscisse a pescare, entro i legittimi organici, le persone giuste da innalzare per rispondere a queste eventuali deficienze.
“Non è credibile che il ministero non riuscisse a pescare, entro i legittimi organici, le persone giuste da innalzare per rispondere a eventuali deficienze”.
Ma poi, non ci riempiamo un po’ troppo la bocca nel magnificare una nostra incredibile eccellenza nei beni culturali? Questa esiste, senza dubbio, ma purtroppo è un bene disperso in mille centri, nessuno dei quali raggiunge un’aggregazione delle dimensioni di un Louvre, di una National Gallery, di un Prado, di un Metropolitan. Da noi c’è solo una realtà “straniera”, data dai Musei Vaticani, capace di fare massa in grado sufficiente. Subito dopo potrebbero venire gli Uffizi, ma qui scatta un secondo guaio, l’insufficienza delle nostre pur prestigiose sedi storiche.
Se vado nei grandi musei stranieri di cui sopra, la coda per accedervi è minima, mentre quando mi trovo nei pressi degli Uffizi, contemplo ammirato il lungo verme di visitatori assiepati in una fila che non avrei il coraggio di affrontare. Infatti, da bravo italiano, non manco mai di cercare di entrare di favore. Un direttore anche di grande capacità, cosa mai può fare di fronte a strettoie di questo genere, cui potrebbero rimediare solo massicci interventi dello Stato? Si aggiunga che, se gli Uffizi sono una rapa bella grossa da cui si può cavare sangue, altre delle realtà promosse velleitariamente dal Ministro, di sangue da spremere, ovvero di richiamo turistico, non ne hanno in alto grado. Forse Brera, forse le Gallerie dell’Accademia a Venezia, ma in altri casi ritengo che gli standard di accesso non siano superabili.
C’è il caso clamoroso di Caserta, dove giustamente è stato riempito di lodi il direttore pescato fuori dai ranghi, ma un qualsiasi suo predecessore nominato con tutti i crismi non avrebbe dovuto fare altrettanto, nel cacciar via i residenti abusivi e nell’obbligare i dipendenti al rispetto degli orari?
‒ Renato Barilli
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #38
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