Una riforma a metà. L’editoriale di Massimiliano Tonelli
Questo è il racconto di un episodio. Non può e non deve essere generalizzato, però la dice lunga su come la riforma Franceschini sia buona ma non sufficiente. Ecco cosa abbiamo visto a Brera fra Natale e Capodanno. Ed ecco cosa resta da fare per portare a un livello europeo il nostro inestimabile patrimonio culturale.
Milano, esterno sera, vacanze natalizie, periodo tra Capodanno ed Epifania, Municipio 1, quartiere Brera. Sei a spasso, decidi di andare a rivederti la Pinacoteca di Brera. Prima però, nella Sala Napoleonica, mostra di arte contemporanea. Il fantastico Dossier Postale di Alighiero Boetti allestito malissimo e spiegato peggio. Con un testo, stampigliato su alcuni pannelli, pieno zeppo di refusi. Pazienza, andrà meglio sopra.
Grande cortile monumentale, qualche persona entra, qualche persona esce. Nello specifico, quelle che escono fermano quelle che entrano. Così: “Scusate, dovete salire? Dovete vedere il museo? Siete anche voi in tre? Perché noi abbiamo ancora i biglietti, nessuno ce li ha annullati”. È tutto uno scambio di ticket. Quel giorno (il 5 gennaio 2018, a essere precisi) chissà quanti ingressi non conteggiati avrà totalizzato il museo. Lo strano mercanteggiare in cortile aveva più di una giustificazione: entri e, invece di andare a destra, vai a sinistra. L’uscita è totalmente sguarnita; gli addetti, quando c’erano, erano imbambolati davanti allo smartphone, ma ora non ci sono più e basta spingere un pulsante per aprire una porta automatica e ritrovarsi dentro la Pinacoteca. Neppure serve mostrare il biglietto pluri-riciclato: chiunque può entrare, controlli zero.
“L’addetta a controllare tutto questo ben di dio di proprietà dello Stato italiano dorme. Sono le quattro del pomeriggio, non le quattro di notte, ma effettivamente l’atmosfera è soffusa, le luci sono fioche, il caldo concilia e il brusio culla. E lei dorme“.
Si parte dunque a ritroso, dall’ultima sala. Spettacolare: la potenza di Giuseppe Pellizza da Volpedo, il romanticismo di Francesco Hayez. L’addetta a controllare tutto questo ben di dio di proprietà dello Stato italiano dorme. Sono le quattro del pomeriggio, non le quattro di notte, ma effettivamente l’atmosfera è soffusa, le luci sono fioche, il caldo concilia e il brusio culla. E lei dorme. Puoi dare una carezza al Quarto Stato e nessuno ti dirà nulla. Le piccole sale successive sono lateralmente chiuse da ringhiere mobili – forse per riallestimento, forse per carenza di personale: non è spiegato il motivo. Si prosegue sempre a ritroso fino alla sala 31 dove l’addetto, questa volta un uomo sempre di mezza età, dorme anche lui. Dorme. È il secondo custode in otto sale, e due su due sono intenti a dormire invece che a controllare. Nelle dieci (dieci!) sale successive, nessun addetto al controllo. Le apposite postazioni vuote. Nella sala dove fa bella mostra di sé la Cena in Emmaus di Caravaggio un bambino è libero di sfiorare il quadro senza alcuna supervisione esterna, se non quella dei suoi genitori. Il successivo addetto, una signora – ancora affondata dentro il suo piumino tanto da sembrare quasi una visitatrice appena entrata e non una persona lì per lavorare – guarda filmati sul suo smartphone piegata in due. Le grandi sale 8, 9, 14 e 15 vedono la presenza degli unici e ultimi due addetti al controllo, questa volta un pelo più attivi e presenti dei colleghi.
Sembrerebbe un’invenzione, o peggio una calunnia, e legittimamente si potrebbe credere che lo sia, se non fosse che tutto quello che dico è ampiamente documentabile da foto e video che custodisco sul mio telefono e che ho deciso di non pubblicare per carità di patria e per non mettere a rischio posti di lavoro.
Ma sui posti di lavori dei musei, ed eccoci al punto, dovrebbero essere i direttori a decidere. Se una persona è capace e adatta al ruolo, si tiene; se una persona non è quella giusta nel posto giusto, la si deve formare, e se non vuole formarsi la si deve sostituire, come accade in qualsiasi organizzazione complessa che punti al massimo dell’efficienza, dello sviluppo, della tutela, del servizio ai cittadini e alla salvaguardia dei propri beni, che in questi casi sono inestimabili e unici.
“Questi elogi però non devono far passare in secondo piano tutte le mancanze che la grande riforma italiana dei musei ancora lamenta. Si tratta di falle rispetto alle quali i direttori dei “musei indipendenti” di mezz’Italia devono far fronte con fatica e inutile dispendio di energie“.
Il giorno dopo aver potuto “apprezzare” le condizioni in cui versa la sorveglianza di Brera, ho letto con orgoglio i dati incredibili sull’incremento dei visitatori dei musei italiani e su quei dati abbiamo costruito l’ennesima notizia di elogio verso il Governo e verso Dario Franceschini. Questi elogi però non devono far passare in secondo piano tutte le mancanze che la grande riforma italiana dei musei ancora lamenta. Si tratta di falle rispetto alle quali i direttori dei “musei indipendenti” di mezz’Italia devono far fronte con fatica e inutile dispendio di energie. In collaborazione con il Ministero della Funzione Pubblica, il prossimo Ministero della Cultura dovrà porsi l’obiettivo di completare la riforma. Altrimenti quella dei cosiddetti “super direttori” resta una retorica incompleta e ipocrita, il racconto di un’autonomia che non può essere tale se pone paletti inammissibili, come lo scarsissimo margine di manovra sul personale.
Anche grazie ai fragorosi risultati in termini di singoli visitatori e di biglietti staccati, la riforma ha oggi acquisito la dovuta credibilità per essere attuata a pieno. Superando cancrene vetero-sindacali e sacche di privilegi, protezionismi e inefficienze non più giustificabili. A seconda del nuovo quadro politico che andrà a formarsi – e che commenteremo sul prossimo numero – il ministro che verrà potrà scegliere se annullare tutto, gettando il bambino con l’acqua sporca, o se migliorare quanto fatto sino ad oggi.
‒ Massimiliano Tonelli
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #41
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