Consigli di amministrazione e Terzo Settore
Un focus sulla riforma che riguarda il Terzo Settore, varata la scorsa estate. Con un’attenzione particolare alla scelta dei membri dei CdA e alle logiche dei compensi.
Il Terzo Settore può cogliere, anche a seguito della riforma varata lo scorso agosto, alcune importanti opportunità. Così, se ormai è troppo tardi per le critiche (salvo capire se e in che misura le potranno accogliere i decreti attuativi di futura emanazione), siamo nei tempi per considerazioni attente e di prospettiva. Tra le novità su cui riflettere, ve ne sono due in tema di governance. Tutti sappiamo quanto il sistema Paese abbia un disperato bisogno che quel “quasi mercato”, come spesso è stata definita la terra di mezzo tra pubblico e privato a cui sussidiariamente sono stati affidati ruoli e compiti importanti, per spiccare definitivamente il volo possa contare su meccanismi di nomina per le posizioni apicali, in primis i consigli di amministrazione, capaci di garantire leadership, competenze e merito e in grado di liberare nuove economie. Non tanto economie di scala per un superato modello riduzionista, quanto economie della conoscenza ed economie di personalizzazione per un innovativo processo di human business.
Così, tra le maglie della riforma sono degni di nota due passaggi: uno sulla possibilità di chiamare a far parte del CdA membri esterni all’ente (previsto nell’articolo 7 del testo che norma l’impresa sociale) ed uno relativo alla possibilità di attribuire un compenso equo e proporzionato agli amministratori in funzione delle loro responsabilità e competenze (previsto nell’art. 3, co. 2 lett. a).
“La previsione di un compenso impone una scelta tra un modus operandi dilettantistico e un approccio imprenditoriale”.
Sarebbe riduttivo pensare che l’attribuzione del compenso agli amministratori divenga la panacea per sistemare la questione fiscal-contributiva una volta per tutte. Anche se finalmente (forse) non ci imbatteremo più in improbabili rimborsi chilometrici o in ricevute di collaborazioni stabilizzate e durevoli vestite da occasionali o in altri ircocervi. La previsione di un compenso per chi amministra, senza qui entrare nel merito del quantum, ma solo dell’an, può rappresentare un cambio di rotta che in qualche maniera impone una scelta tra un modus operandi dilettantistico (non si usa a caso l’aggettivo, posto che lo sport è rimasto alla larga, leggasi fuori, dalla riforma) versus un approccio imprenditoriale (che riconosce il valore, anche economico, di coloro che guidano l’impresa, rischiando).
FARE LA DIFFERENZA
L’ingresso poi di un terzo incomodo, leggi esterno, nel board, potrà essere una piccola grande rivoluzione: pensiero laterale? Perché no. Prima della decisione su chi entrerà nel ruolo, sarà fondamentale avere chiarezza sulla missione e gli obiettivi dell’ente, a meno che non si navighi talmente a vista da sperare che un soggetto “terzo” possa indicarci il porto e anche la rotta da seguire. Certamente dovranno essere donne e uomini capaci di “fare la differenza”, di dare quel plus generativo per accompagnare l’ente in un viaggio coerente ai suoi bisogni reali: di crescita piuttosto che di consolidamento, di innovazione o di internazionalizzazione. E, bene sottolinearlo, non importa essere piccoli, poiché è sempre una questione di proporzioni e di scala, e per tutti vi è un’istanza di “intraprendenza”.
Mi pare bello immaginare che in un prossimo futuro le assemblee dei soci (sempre sovrane) siano in grado di selezionare “nuovi” amministratori cercandoli con criteri meritocratici. In un mondo fatto di scouting permanenti, non solo per dimostrare di possedere il fattore X, il futuro dell’impresa sociale e culturale ha bisogno di concorrenti all’altezza. Dall’altra parte non si troveranno improbabili giudici, ma solo la salomonica mano della sostenibilità.
‒ Irene Sanesi
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #41
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