Cassa Depositi e Prestiti, luci e ombre. L’editoriale di Massimiliano Tonelli
La Cassa Depositi e Prestiti, di proprietà dello Stato italiano, è un ottimo organismo economico. Ma siamo sicuri che le risorse siano impiegate nel miglior modo possibile?
Ci sono degli attori, sul palcoscenico teatrale delle faccende culturali italiane, che hanno un’enorme responsabilità e che forse se ne rendono conto solo fino a un certo punto. Ci sono degli attori, fra l’altro, che hanno un ruolo cruciale e decisivo ma che non ne ricavano una visibilità adeguata e coerente, e questo per un verso li danneggia in quanto a popolarità, ma per un altro verso li favorisce in quanto a “deresponsabilizzazione intellettuale”, ci si passi l’espressione, rispetto alle scelte culturali fatte. Insomma: io sono un soggetto importante, le mie decisioni hanno un impatto, ma il mio brand, il mio nome, la mia storia sono poco conosciuti dalle masse e non sono evidenti al pubblico che partecipa alle “mie” manifestazioni, per cui, anche se effettuo scelte discutibili, nessuno arriverà mai ad addebitarmele. Questo un po’ il ragionamento.
Un soggetto che non si allontana molto dalle caratteristiche di cui sopra, in questa fase storica, è la Cassa Depositi e Prestiti. La CDP, nata a Torino capitale del Regno di Sardegna nel 1850, è un gigante economico di caratura mondiale. Dal 1875 provvede a investire con profitto il risparmio postale degli italiani e ad oggi ha attività superiori a 400 miliardi di euro e fatturato annuale superiore a 12 miliardi. L’ultimo utile aggregato sfiora i 3 miliardi. CDP è di proprietà dello Stato italiano, ma opera – per fortuna – non più come un pachiderma pubblico bensì come una agile merchant bank a caccia di opportunità di business sul mercato. Lo fa in tanti settori e tra questi nel settore immobiliare dove, in ossequio alle buone pratiche internazionali, si comporta come i grandi developer: si restaurano spazi in disarmo, si fanno vivere e si animano dopo anni di abbandono, rendendoli appetibili sul mercato, e poi si vendono a un prezzo più adeguato. La strada è quella giusta e i risultati ottenuti sono lusinghieri: spazi dismessi si sono trasformati in pezzi di città finalmente fruibili, percorsi da tantissima gente, capaci di generare giro d’affari e posti di lavoro.
Questo è avvenuto o sta avvenendo a Roma all’Ex Dogana di San Lorenzo, alle Ex Caserme di via Guido Reni, all’Ex Palazzo degli Esami; a Napoli a Palazzo Fondi; dopo l’estate anche a Milano all’Ex Manifattura Tabacchi della Bicocca. Tutta una serie di “ex” che identificano enormi lotti immobiliari che negli anni hanno perduto la loro funzione e che devono essere trasformati. Tra la vendita, la trasformazione, la rigenerazione e il cambio di destinazione passano anni, quindi è utile e necessario riempire il tempo con contenuti che aiutino queste aree a farsi conoscere e a entrare nelle abitudini dei cittadini.
“Il modello, come ribadiamo, è giusto; i contenuti che sono stati calati nel modello, invece, sono a tratti discutibili, se non imbarazzanti”.
Lo si può fare in tanti modi, CDP ha scelto di farlo con le mostre. O meglio, con manifestazioni chiamate “mostre”. Non direttamente in prima persona (come dicevamo prima, CDP non è visibile e quasi nessuno tra i milioni di cittadini che hanno percorso questi spazi è a conoscenza del nome della proprietà e del fatto che si tratti, di fatto, di una proprietà pubblica) ma rivolgendosi di volta in volta a società, agenzie di comunicazione, organizzatori di eventi. Il modello, come ribadiamo, è giusto; i contenuti che sono stati calati nel modello, invece, sono a tratti discutibili, se non imbarazzanti. Per conseguire l’obiettivo del coinvolgimento di un pubblico di massa, le società che hanno preso in gestione queste aree pubbliche hanno optato per un’offerta espositiva semplice, basica, di facilissima fruizione, adatta a famiglie con bambini che puntano a un intrattenimento non troppo dissimile dal parco a tema. Mostre sulle sculture Lego, sui dinosauri, sugli animali velenosi, sullo spazio, sul corpo umano, su van Gogh ma solo in virtuale, solo “experience”. Quasi mai prodotte, quasi sempre comprate a pacchetto. Con un livello scientifico di non elevata consistenza.
Risultato? Centinaia di migliaia di persone (persone che magari non erano mai entrate prima in una “mostra”) sono andate via pensando che quella fosse una mostra, che quello fosse intrattenimento culturale, che quello fosse edutainment per i propri figli. Un malinteso in piena regola, ancor più grave perché perpetrato dallo Stato. Se è legittimo, infatti, che dei privati propongano eventi espositivi di carattere ultracommerciale con l’obiettivo di massimizzare i profitti della sbigliettazione, è forse meno legittimo che tutto questo si svolga in edifici pubblici, seppur giustamente gestiti con un approccio imprenditoriale. CDP disponeva di enormi superfici (54mila mq Guido Reni; 11mila mq Palazzo degli Esami; 5mila mq Palazzo Fondi!) con la prospettiva di una futura ricca valorizzazione immobiliare: perché non le ha sfruttate per investire su progetti che coniugassero grande richiamo popolare e altissima qualità culturale? Davvero non si poteva?
“La CDP, nata a Torino capitale del Regno di Sardegna nel 1850, è un gigante economico di caratura mondiale”.
Il grande successo di queste manifestazioni, poi, ha unito malinteso a malinteso. Consegnando su un piatto d’argento una scusa e un pretesto alle lentezze del decisore pubblico. Un esempio? Alle Ex Caserme di via Guido Reni a Roma deve partire un grande progetto immobiliare, le caserme debbono essere abbattute e trasformarsi in un quartiere residenziale. È stato fatto il concorso, c’è un vincitore, manca solo l’approvazione in Giunta, che tarda da mesi e mesi. Ma cosa importa, qualcuno potrebbe pensare, tanto negli spazi si svolgono manifestazioni di enorme richiamo con successo economico per tutti, un eventuale ritardo non creerebbe nessun problema. E così CDP, invece di fare pressioni sul Comune per vedere approvato definitivamente il progetto, proprio in queste settimane sta riflettendo se rinnovare per un altro anno l’accordo con la società che ha portato tante “mostre” e tanto pubblico. Ecco che il “marketing immobiliare temporaneo” diventa un po’ meno temporaneo e, invece di agevolare la partenza dei progetti definitivi, offre scusanti a chi non riesce a sbloccarli. Un processo gestito senza pensiero e senza visione, che rischia di generare danni culturali e urbanistici superiori agli indubbi vantaggi economici.
‒ Massimiliano Tonelli
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #43
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