Il Macro Asilo di Roma, l’inclusione e lo sviluppo territoriale. Parla Alfredo Pirri
Francesco Cascino, art consultant e presidente dell’associazione culturale non profit Arteprima, si confronta con Alfredo Pirri sulla chiacchierata partecipazione di quest’ultimo al programma del Macro Asilo. Ma anche sul panorama politico attuale e sul ruolo giocato dall’arte in tale cornice
Caro Alfredo Pirri, nei giorni scorsi ha fatto molto discutere una tua lettera sulle pagine online di questa rivista. La lettera-appello è rivolta soprattutto agli artisti e agli intellettuali per rispondere con la cultura, anche in termini forti (come facevano Carmelo Bene e Fellini, Gramsci e Pertini), alla dittatura strisciante di un governo caratterizzato da analisi sociale di nessuna umanità e sensibilità e da decisioni xenofobe e banali su ogni fenomeno complesso che riguardi i migranti, la società, le diversità, i trasporti pubblici, le infrastrutture, la cultura stessa.
In questi giorni si dibatte però anche del Macro e del suo progetto Macro Asilo e della nomina a presidente dell’azienda Palaexpo di Cesare Pietroiusti. Quello che mi colpisce negativamente è la trasformazione del museo di arte contemporanea di Roma, quindi pagato con soldi pubblici, da filtro di selezione della qualità e dispositivo di mappatura delle eccellenze locali e internazionali, con finalità d’incontro e confronto tra loro, a luogo da pic-nic, parole di De Finis, dove “ognuno porta qualcosa”.
Mettendo a confronto i temi sollevati dalla lettera con l’accettazione dell’invito del Macro a partecipare al suo programma attraverso una conferenza sul tuo lavoro e sulla tua generazione, molti ti addebitano una contraddizione, sembrando questa decisione una sorta di collaborazione con il governo pentastellato della città. E parrebbe che, pur criticando l’autoritarismo di Salvini, dall’altra parte accetti di convivere col suo maggiore alleato dando così forma, a prima vista, a un conflitto di visioni, interessi e convenienze. Tu stesso dici, però, di avere accettato l’invito per dare l’occasione di ascoltare una voce fuori dal coro.
Io lo capisco, conoscendoti per il valore umanistico ed etico, e per questo ti chiedo, anche a nome di altri che mi hanno contattato ponendomi la questione, ragioni e dettagli ulteriori.
Prima di tanti altri chiedi da anni che la sinistra s’interroghi e si occupi degli esclusi, e della rigenerazione umana dei quartieri, perché non lo fa con gli strumenti culturali giusti. Secondo te è giusto chiedere alla sinistra di dialogare con i 5 Stelle e, a limite, allearsi con loro per cambiare le cose?
Per prima cosa, grazie ad Artribune per darmi l’opportunità di ampliare le questioni poste dalla lettera. A premessa vorrei dire che mi piacerebbe rispondere alle tue questioni in maniera politica. Appartengo a una generazione che ha vissuto la lacerazione del 1977, da una parte ero come (quasi) tutti i giovani di allora indirizzato verso i pensieri e le azioni dell’estremismo politico, dall’altra però ero molto attratto dalle riflessioni di Enrico Berlinguer sul cosiddetto compromesso storico che, molto sinteticamente, prevedeva un colloquio nuovo fra comunisti e cattolici. Come sappiamo questo processo è terminato col sequestro e l’omicidio del segretario della Democrazia Cristiana Aldo Moro. Ho detto comunisti e cattolici perché Berlinguer non pensava solo a un’alleanza politica fra due partiti (PCI e DC) ma alla costruzione di un laboratorio politico che portasse a un vero confronto culturale fra ideali e interessi distanti fra loro e che desse vita a una nuova condizione culturale degli italiani caratterizzata dal superamento dei pregiudizi. Il fallimento, anzi l’annegamento nel sangue, di questo programma ha generato, secondo me, una situazione politica disastrosa che si trascina fino a oggi. Da allora continuiamo a celebrare l’idea di un uomo solo al comando, infatti si sono succeduti governi caratterizzati dal solo nome del capo del governo in carica celebrato come un santo, in una totale assenza di visione politica generale e strategica. Purtroppo, anche la sinistra ha ceduto a questo stile degenerativo con Matteo Renzi che, con la sua ultima sortita, solitaria e imposta senza alcun dibattito, ha decretato la fine di ogni possibile dialogo fra PD e 5 Stelle per formare un governo che avrebbe impedito alla destra di prendere, come oggi oggettivamente è avvenuto, il comando della nazione. Come per il compromesso storico, si sarebbe trattato (ma ancora oggi si tratta) di costruire un laboratorio politico in cui fare crescere, anche nel conflitto, un popolo che invece a questo punto è imbarbarito da ideali fascisti portati avanti dalla Lega e da Salvini. Questo laboratorio va reso attivo tutti i giorni, tutti i momenti, anche in assenza di una lingua comune, perché ormai di questo si tratta, non tanto, cioè, di differenze di punti di vista, ma principalmente linguistiche. La prima e più importante vittima del terrorismo in Italia è la lingua, diventata qualcosa d’informale e incomprensibile, e la memoria, parlo di quella storica. Ci meravigliamo se, nominando il fascismo, a nessuno ormai vengano dei brividi di orrore, ci dovremmo meravigliare anche che a nessuno sia tornata alla mente la questione dell’Aventino e del ritiro altezzoso di quei deputati che ne hanno favorito l’avvento.
Quali prospettive vedi dal punto di vista politico per il populismo dilagante? Le responsabilità maggiori, gli interventi incisivi possibili.
Bisogna intendersi sul termine populismo, si usa troppo spesso a sproposito. Per me significa l’affermazione di un popolo nella sua forma primaria, nel suo isolamento linguistico, nel suo desiderio privo d’immagine, di autoaffermazione. Insomma un mix di cose buone e cattive, in altri termini la determinazione di uno status al quale il popolo stesso è stato relegato e condannato a vivere. Da chi? Mi chiederai. Da chi non l’ha ascoltato, da chi non ha saputo dare forma musicale al suo grugnito e al suo urlo, da chi ha permesso, anzi favorito, l’incultura e da alcuni prepotenti che, pur occupando posti pubblici di rilievo, hanno rifiutato di confrontarsi, preferendo rifugiarsi dentro nicchie sicure formate da élite politiche e burocratiche. Da tutto questo la sinistra è stata esente? La mia risposta è: purtroppo no. Il populismo è stato quindi costruito giorno dopo giorno, non emerge dal nulla, viene dalla mancanza di quel laboratorio politico e culturale che avrebbe fatto sponda a questa situazione. A questo punto interventi immediati e possibili non ne esistono, si può solo provare a impedire che le cose degenerino, innanzitutto sul piano dei diritti e del razzismo e avviare al più presto un confronto con quanti più possibile, sapendo però che alcune idee abnormi hanno preso forma e si sono ormai incistate nelle menti e nei corpi di molti e ne hanno fatto dei mostri. È arrivata a completarsi quella mutazione genetica che Pasolini aveva visto sorgere e di cui parlava. Ma con i mostri bisogna dialogare, se non lo facciamo, diventiamo tutti (chi più chi meno) mostruosi.
Credi che l’arte possa fare la sua parte? Credi che l’arte da sola possa farcela a riproporre quel modello di città dove si mischiavano esperienze e religioni diverse, o deve allearsi con la politica, innervarla e contagiarla di nuovo?
Mi ero ripromesso di non parlare d’arte in questa discussione, ma è vero bisogna immaginare che posto occupi dentro questo scenario. Per prima cosa si dovrebbe distinguere fra arte e artisti, la prima ha bisogno di spazio e tempo, e ruolo della politica è quello di garantire questo bisogno. Gli artisti sono donne e uomini che vivono dentro l’arte, dico proprio dentro come in una costruzione da cui entrano ed escono a piacimento, spalancano le finestre o le sbarrano, sbattono le porte o le socchiudono delicatamente, accendono fuochi il cui fumo si vede da paesi lontani, scavano gallerie sottoterra per fuggire (anche quando c’è una porta incustodita). Insomma, contagiare, mischiare etc. è sempre possibile a condizione che si permetta all’arte e agli artisti di circolare liberamente, entrare e uscire secondo il proprio desiderio. La realtà minacciosa di oggi sembrerebbe invece volerli rinchiudere dentro una volta per sempre, fino a seppellirli dentro, circondati da filo spinato.
Pensi che si possa creare un corridoio di dialogo attraverso gli artisti con le istituzioni? E come mai hai accettato di far parte del programma del Macro Asilo?
Partiamo dal Macro. Ho scelto di tenere una conferenza della durata di circa novanta minuti nella sezione “Autoritratti”, piuttosto che in quella “Lectio”, il 24 novembre prossimo. Mi sforzerò di inquadrare il mio lavoro dentro un clima generazionale avviato dalla metà degli Anni Ottanta fino a oggi, facendo esplicito riferimento allo sforzo di congiungere orientamenti politici a caratteri personali. Proprio quindi i temi di cui si diceva prima. Il fatto che si tratti di una conferenza, cioè di una piccola cosa, non mi esime dall’avere una responsabilità per partecipare all’attività di uno spazio che, a tutti gli effetti, apparirebbe come caposaldo culturale del movimento 5 Stelle, cioè del partito che condivide il governo monopolizzato dalla Lega e da Salvini. Il motivo principale per cui ho accettato di partecipare sta proprio in quello di cui dicevo, cioè la necessità che avverto di dare vita a un laboratorio politico e culturale che cerchi di tenere aperto un canale di dibattito, incontro e semmai scontro. Aggiungo che non condivido l’impostazione del Macro Asilo, soprattutto rispetto alla scomparsa delle mostre che, a mio parere, rimangono la pietra angolare della pratica artistica (lo so che detto così appare esagerato…). Nella proposta che appare oggi c’è anche il rischio che il Macro Asilo voglia porsi come sagoma esaustiva e unica del fare arte: proprio attraverso la varietà esplosiva delle cose proposte o autoproposte rischia di affermarsi un modello comportamentale e formale che nega la singolarità dell’arte facendone una pratica, come ho detto prima per la lingua, informale, cioè puramente testimoniale. Idem per la responsabilità politica che si assume chi comanderà le strutture in questione, bisognerà vigilare, dialogare ma anche contestare e allontanarsi se sarà necessario.
‒ Francesco Cascino e Alfredo Pirri
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