Charlie Hebdo, il Ponte Morandi e la propaganda di Stato anti-immigrati. La vignetta che indigna
Una nuova, brutale vignetta dedicata all’Italia da Charlie Hebdo, il periodico satirico francese, colpito da un attentato terroristico nel 2015. E da allora sempre più al centro delle polemiche. Stavolta la vignetta della discordia si occupa del Ponte Morandi di Genova, ma anche della vicenda migranti, che monopolizza il dibattito nazionale…
Sgradevoli lo sono sempre, per scelta e per passione. Sboccati, ruvidi, pungenti, fuori luogo, macabri, irrispettosi, del tutto disinteressati alle buone maniere. Ragazzacci punk, contenti d’essere antipatici e di imbastire ogni giorno la loro guerra scanzonata contro qualunque forma di potere politico o religioso. Contro déi, capi, santoni, mercati, tradizioni, Stati, mafie, sistemi finanziari o di governo. Charlie Hebdo rutta in faccia a qualunque dogma, istituzione o intoccabile feticcio (inclusa l’appartenenza a una fede, a un codice morale o a una Nazione), per puro spirito burlesco e di contestazione: se nessuno riesce a domarli, se il coro dell’indignazione borghese risuona alto e forte, loro non possono che gioirne e divertirsi ancora. Come si divertivano anni fa, quando il male era ancora lontano o al massimo vestiva i panni della minaccia, della paura a intermittenza: poi venne quel 7 gennaio del 2015, su cui Al-Qā ida lasciava la sua firma insanguinata, condannando a morte il direttore della rivista, Stéphane Charbonnier, e alcuni membri della redazione, negli uffici parigini di Rue Nicolas-Appert.
“JE NE SUIS PLUS CHARLIE”
E allora oggi li odiano tutti, questi mastini della satira made in France, che alla risata sostituiscono una smorfia e che provano a urtare le coscienze, qualche volta andando a segno, qualche altra molto meno. Li odiano nonostante il diluvio di #jesuischarlie piovuto da ogni dove, solo tre anni fa, all’indomani della mattanza. Contro i demoni del terrorismo islamico i cittadini d’Europa facevano muro, con il loro senso di giustizia e la loro compassione, condividendo il dolore dei superstiti e condannando la follia di chi aveva voluto vendicare Hallah, colpito dall’ennesima vignetta irriverente.
Quindi, finito il moto solidale, i panni di Charlie iniziarono a farsi scomodi. In Italia, per esempio. Dove nessuno li conosceva prima della tragedia, nessuno li aveva mai associati (con tutte le differenze di segno e di contesto) a storiche riviste dissacranti come Il Male e a certe penne satiriche affilate, smaccatamente antisistema. Poi la realtà divenne chiara: quei tizi erano indomabili, insopportabili, spesso volgari, senza freni, capaci di fare le peggiori battute su qualunque tema, senza alcun rispetto per niente e per nessuno. Nemmeno per i morti. Loro, che i morti li avevano pianti in famiglia, nel modo più crudele (e basterebbe questo a far riflettere, a proposito di dogmi da scardinare e di tragedie da esorcizzare).
Piano piano la solidarietà si tramutò in odio. Odiare Charlie divenne uno sport collettivo. Dai morti per i naufragi nel Mediterraneo a quelli sepolti dalla neve a Rigopiano, passando per le vittime del terremoto in Centro Italia nel 2016: una sequela di vignette che hanno – comprensibilmente – scatenato l’ira delle masse, sospendendo l’abituale “territorio franco” che si concede alla satira, libera per definizione. Je ne suis plus Charlie: come se la battaglia giusta contro la censura omicida dei fondamentalisti fosse venuta meno, in ragione delle proprie idiosincrasie.
LA BRUTALE VIGNETTA SUL CROLLO DEL PONTE MORANDI
L’ultima vignetta, che dalla copertina del numero 1361 ha di nuovo fatto imbestialire gli italiani, non poteva che riguardare il crollo del Ponte Morandi a Genova. Su un fondo giallo si erge, nell’angolo sinistro, l’ultimo brandello superstite del Ponte, sospeso in mezzo al nulla. Al centro un’automobile bianca, piegata a fisarmonica, sfracellata al suolo dopo il volo. In fondo altre macerie sparse, nel luogo di un incidente che è già storia luttuosa e incancellabile. Il primo piano è tutto di un omino color ebano, intento a spazzare i detriti: sorriso ebete, tratti africani caricaturali, la ramazza in mano e un’aria allegra che stona. Due sole scritte, riferite al Ponte: “Costruito dagli Italiani…” e “Pulito dai migranti…”. Stop.
La prima associazione è quella tra l’uomo e la tipica “faccetta nera”, rappresentazione d’epoca coloniale che assegna al buon selvaggio il ruolo di utile idiota, funzionale all’espansione nazionalista, con l’inganno del riscatto e della civilizzazione: è ancora così che vediamo lo straniero? Accolto per pietà, consegnato a umili mestieri e rappresentato come chi – alle spalle dei poveri italiani – si gode la famigerata “pacchia”.
Quindi, nel giro di pochi secondi, arriva il senso, quello vero. Durissimo. Colpito – con l’odiosa frase che richiama subito a una responsabilità – il fragile sistema Italia, quello dei ponti in calcestruzzo anni ‘50/’60, a rischio di cedimento, che non sono stati manutenuti a dovere; quello delle infrastrutture vecchie e mai più ammodernate; quello delle infrastrutture nuove che non arrivano da tempo e che ambientalisti di maniera, fanatici della decrescita felice e nemici delle cubature hanno ostacolato con costanza e continuano a ostacolare: per il M5S, ad esempio, quella del crollo del Morandi era solo una “favoletta” incentivata dagli speculatori. E la Gronda, che avrebbe redistribuito il traffico alleggerendo il viadotto, era uno scempio che non s’avea da fare. Di recente il Ministro alle Infrastrutture Danilo Toninelli aveva ribadito la volontà di bloccare quei lavori, che il suo predecessore, Graziano Del Rio, aveva finalmente avviato dopo decenni di rinvii e di contestazioni. Certo nessuna responsabilità per i pentastellati, appena arrivati al governo. Nuovi profeti, tuttavia, di una vecchia retorica diffusa ed evidentemente dannosa.
DIBATTITO SUI MIGRANTI E STRATEGIE DI COMUNICAZIONE
Quanto al migrante che spazza macerie, altro non è se non la metafora perfetta di quell’arma di distrazione di massa che ha velocemente spento il dibattito intorno a Genova, orientando l’indignazione popolare verso il solito capro espiatorio: non si parla altro che di migranti, di un’invasione che non c’è, di un’emergenza che dovrebbe essere ordinaria (e ordinata) amministrazione.
Riflettori accesi sulla Nave Diciotti – territorio della Guardia Costiera Italiana – bloccata dal Ministro degli Interni Matteo Salvini nel porto di Catania, con 177 disperati a bordo, salvati dalle acque, sopravvissuti alla traversata nell’inferno libico, ma impossibilitati a sbarcare. Da giorni. In assenza di un atto formale, di regolari controlli per attestare lo status di rifugiati e di motivazioni concrete (pericolo di epidemie, sospetto terrorismo, etc.), ma soprattutto in probabile spregio delle leggi nazionali e internazionali (l’Italia che sequestra una nave italiana, limitando la libertà di movimento di molti esseri umani, tra superstiti ed equipaggio).
E intanto la procura di Agrigento valuta se avviare un’indagine contro ignoti per sequestro di persona e trattenimento illecito a bordo. “Arrestatemi pure”, tuona Salvini, “non sono ignoto, sono il Ministro degli Interni”, mentre gli fanno eco i suoi uomini, tra cui l deputato Giuseppe Bellachioma, che su Facebook minaccia i magistrati: “Se toccate il Capitano vi veniamo a prendere” sotto casa, occhio!!!”. Clima eversivo, inquietante. Mentre è già archiviata la discussione su crolli, autostrade, concessioni e responsabilità: il caso Diciotti ha rubato la scena al crollo del Ponte Morandi, a distanza di una manciata di giorni.
Lo stesso Salvini, del resto, aveva dato il meglio di sé a poche ore dall’incidente, con un Tweet surreale in cui – in faccia ai cadaveri ancora caldi – si rallegrava per la “buona notizia” giunta in un giorno “triste”: “La nave Ong AQUARIUS andrà a Malta e gli immigrati a bordo verranno distribuiti fra Spagna, Francia, Lussemburgo, Portogallo e Germania.Come promesso, non in Italia, abbiamo già fatto abbastanza. Dalle parole ai fatti”. Una specie di ossessione personale. O più probabilmente una efficace strategia di comunicazione: tanto rozza nei contenuti e nella forma, quanto raffinata nei metodi, nei tempi e nei passaggi. Il tema dei migranti sovrasta tutto, catalizza, fagocita, cancella. Ripulisce, per l’appunto. Le macerie spazzate dall’uomo nero sono un’immagine disturbante e scandalosamente autentica. L’immagine dell’Italia in questo momento storico, tra cronaca nera e dialettica politica.
LE REAZIONI
Scoppiato il putiferio, come prevedibile. Nonostante stavolta non ci sia alcuna raffigurazione irrispettosa delle vittime, com’era accaduto in altre occasioni. Ed ecco commenti inorriditi sui social, rappresentanti delle Istituzioni offesi (“Questa sarebbe satira? Per me c’è solo una parola: schifo“, ha commentato il viceministro Rixi), politici che scendono in trincea (Marco Marsilio, di Fratelli d’Italia, ha addirittura chiesto al Ministro agli Esteri Moavero di convocare l’ambasciatore francese a Roma).
La verità è che Charlie di vignette ciniche e riuscite ne ha fatte diverse: su tutte la serie dedicata al piccolo Aylan, il figlioletto di profughi siriani morto in mare, la cui foto divenne simbolo della tragedia dei migranti e che la rivista commentò con battute provocatorie, per molti disumane, ma che lasciavano emergere i pregiudizi di un Occidente connivente, razzista, capitalista e ipocritamente commosso. Altre, similmente crudeli, sono arrivate con più difficoltà e poca incisività, sfiorando lo sberleffo gratuito. Azzeccarla sempre, del resto, non è semplice. Soprattutto quando la materia prima è la morte, il dolore, ma anche i simboli sacri e le fedi collettive: maneggiare con cura è d’uopo, sfoderare talento e intelligenza è il minimo.
Dunque, al netto delle giuste emozioni vissute da un Paese che piange le sue vittime, al netto della rabbia comprensibile di fronte a trovate fin troppo provocatorie, pare non sia ancora venuta a noia la pratica dell’indignazione contro Charlie, ogni volta che Charlie tocca un tema che ci riguarda. Nessuna indulgenza per questa banda di Lucignoli col vizio della denuncia e del dileggio, per alcuni dei satiri brillanti, per altri (la maggior parte) assolutamente dozzinali: il gusto e la sensibilità personale, del resto, guidano anche le compere in edicola, com’è ovvio che sia. Eppure, ogni volta, si leva il coro dei giudici con le orbite di fuori, il sangue al cervello e un desiderio (anche inconfessato) di censura. Nemmeno se Charlie fosse nato ieri e se questo tipo di satira – cattiva, urticante, beffarda – non fosse antica come sono antichi il teatro e la letteratura. Il patriota nascosto in ognuno di noi si desta, non appena i cuginastri francesi dalle matite anarcoidi schizzano sul foglio una nuova gag, che azzanna l’Italia e gli italiani. In leggerezza e in ferocia, comme toujours. In certi casi fallendo il bersaglio, in certi altri dicendo la verità. Anche (e soprattutto) quella che fa male.
– Helga Marsala
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