Il Macro è il primo museo di regime della nuova Italia gialloverde
E se il “nuovo” Macro di Roma fosse soltanto un primo esperimento di museo di regime? E se fosse lo specchio fedele del governo fasciogrillino? A poche ore dall'inaugurazione, una riflessione su presente e futuro dell'istituzione capitolina.
Sul Macro di Roma siamo tornati più volte nell’ultimo anno. Via via abbiamo commentato le novità, le modalità con cui si è arrivati a una nuova proposta culturale, le forzature dell’amministrazione. Abbiamo cercato di riflettere sugli aspetti positivi e su quelli negativi criticando senza sconti il nuovo direttore Giorgio De Finis, che pure in passato aveva avuto tanti positivi spazi su queste pagine. Insomma, senza preconcetti e ovviamente consapevoli di ragionare su un progetto ancor prima di vederlo realizzato (felicissimi di essere smentiti all’atto pratico), abbiamo approfondito ciò che succedeva attorno a questo vecchio-nuovo museo della capitale d’Italia. Lo abbiamo fatto perché abbiamo avuto fin da subito la sensazione che le novità che riguardavano il Museo d’Arte Contemporanea di Roma travalicassero il caso specifico e si configurassero come un prototipo, come un esperimento, come un sistema replicabile, scalabile.
UN PROBLEMA DI MODELLO?
Oggi quelle riflessioni possono essere corroborate, in attesa dell’imminente inaugurazione, dai primi elementi e contenuti ufficiali diramati dal museo: nello specifico ci riferiamo al programma del primo mese. Giorno dopo giorno, tutto il mese di ottobre sarà interessato da un palinsesto serrato di piccole mostre, incontri, letture, presentazioni, lezioni. È un’idea di museo interessante, coerente con i tempi e con i budget, in sintonia con il mood “social” che governa i ritmi delle persone e dei visitatori; un’idea – intendiamoci – tutt’altro che nuova. Alcuni protagonisti promettono buoni spunti, altri molto meno.
Ma il punto non è il modello, il punto non è neanche il contenuto, il punto non è nemmeno l’imbarazzante veste grafica del programma (siamo passati dalla grafica impeccabile dei Left Loft, uno dei maggiori studi di design editoriale in Italia, a un caos visivo che non aiuta nessuno). Il punto semmai è l’inquietante vicinanza tra i propositi culturali che questo museo pubblico punta a condividere con la cittadinanza e i propositi culturali che l’attuale scenario partitico-politico sta inculcando nella popolazione giorno dopo giorno, post dopo post, annuncio dopo annuncio, folle provvedimento dopo folle provvedimento.
UN ESPERIMENTO DI REGIME
Non ci vuole un fine politologo per capire che il Macro di Roma è il primo autentico esempio di museo di regime. A dispetto della maschera scapigliata e rivoluzionaria, come spesso accade per i ribelli, in realtà la sostanza è reazionaria all’inverosimile. Reazionaria al punto da sovrapporsi in maniera quasi perfetta con il micidiale perimetro ideologico e con l’atroce impalcatura propagandistica dell’attuale governo giallo-verde al potere in Italia: populismo e clientelismo in ogni dove.
“Non ci vuole un fine politologo per capire che il Macro di Roma è il primo autentico esempio di museo di regime”.
È forse la prima volta, quanto meno dal Dopoguerra, che un’istituzione culturale pubblica si fa carico di mutuare al suo interno tutti i capisaldi ideologici del governo che l’ha nominata e che la finanzia. In questo senso il Macro è avanguardia pura, è il primo museo ad attuare una strategia simile. Il primo museo di regime di questa nuova Italia impaurita, plagiata, criptofascista, razzista, sovranista. È opportuno guardare questo esperimento (così lo chiama il direttore Giorgio De Finis: “esperimento“) con molta attenzione perché potrebbe essere il primo di una lunga serie. L’epurazione di massa di intellettuali, curatori, direttori di museo che è avvenuta a Torino (altra grande città finita sotto il regime di Casaleggio & Casalino) è il perfetto contraltare, altro esperimento peraltro lì riuscito alla perfezione: il capoluogo piemontese, sempre protagonista del dibattito culturale italiano, è uscito totalmente dai radar, si è spento. E solo in una città intellettualmente spenta i cittadini sono disposti a votare populisti e sovranisti alle elezioni.
Il Macro di Giorgio De Finis (direttore che non si può chiamare “direttore”, visto che per nominarlo si sono forzate le norme e il buon senso; qui il parallelo è con Foa alla Rai) è dunque un museo di assoluta avanguardia. Può essere il primo di una serie. Va analizzato con accuratezza perché è il dichiarato “esperimento” di quello che può avvenire altrove. Il populismo acchiappaclick del resto è già nelle corde del ministro Bonisoli che, oltre a sparare fesserie sull’insegnamento della storia dell’arte e sulla gratuità dei musei, ha fatto un’unica dichiarazione programmatica in quattro mesi: “I prossimi direttori dei musei dovranno parlare italiano“. Amen.
POPULISMO ARTISTICO
Ma cos’è che fa del Macro un prototipo così interessante? Il primo concetto proveniente dalle sinistre ideologie della Casaleggio e instillato in un’istituzione museale è quello dell’uno-vale-uno. Tutti possono essere artisti. Di più: tutti possono essere artisti professionisti. Ancora di più: tutti possono essere artisti degni di esporre in un museo pubblico. Se nella tua vita hai fallito, non ce l’hai fatta, nessuno ti ha considerato, non è tua la colpa, non è perché non ti sei impegnato, non è perché non hai talento. No. È colpa del sistema cattivone che ti ha marginalizzato, è colpa dei poteri forti che ora vanno puniti. Per diventare artisti ed essere parte del museo basta presentarsi all’appello (termine mutuato dall’universo didattico italiano, altro ambito dove la meritocrazia non esiste e non deve esistere) nella data e nell’orario prescritta dal programma.
È lo stesso concetto della “Manovra del Popolo” di Luigi Di Maio. La Legge di Stabilità che finge di far felici tutti, che prova a dare un contentino a tutti, ma che in realtà umilia tutti e mette a repentaglio tutti: anzi, non tutti, soprattutto i più deboli e i più fragili. Come nell’ambito finanziario, così esattamente nell’ambito artistico il facile populismo apparentemente dà soddisfazione ai deboli (in questo caso agli artisti falliti) ma in realtà lì marginalizza ancora di più con grande soddisfazione dei potenti. Se sfasci i conti pubblici di un Paese, fingi di dare biada al tuo elettorato di nullafacenti, ma in realtà sugli spread alle stelle ci marcia Soros e la speculazione finanziaria globale. Stessa cosa nei musei: fai finta di far entrare nel museo chi non aveva mai avuto l’opportunità di entrarci, ma in realtà a livello più alto squalifichi un’intera città, un intero sistema, mortifichi la credibilità di una generazione e di un unico brand che è il brand Roma.
Il sistema dell’arte (tanto detestato da De Finis, che lo stigmatizza anche nei sui disegnini – sì! – presenti nel programma) ci va a nozze e semplicemente fa di tutta l’erba un fascio: quel che si fa a Roma è folkloristico e marginale, si passi oltre.
LA QUESTIONE DEGLI INGRESSI
Ovviamente l’uno-vale-uno trasmigra anche nel biglietto d’ingresso. Gratis per tutti. La narrazione vuole la scelta come simbolo di accoglienza e apertura (del resto il Macro è “asilo”), la realtà è un’altra: col biglietto gratuito si evita il rischio flop che già ha funestato la precedente scelta dell’amministrazione, quella di ospitare al Macro la grande mostra sui Pink Floyd. Ora De Finis potrà vantare orde di visitatori perché chiunque verrà conteggiato come pubblico, anche uscire per un caffè e rientrare nel museo servirà ad aumentare il computo. E così il rischio fallimento è scongiurato.
Peccato che a livello finanziario, oltre ai cospicui investimenti per allestimento, stipendio del direttore e programma, si dovranno riportare anche i mancati incassi. Ma gli equilibri finanziari, come insegna il governo e come impara il Macro, non sono cosa che riguardano i nostri eroi.
CONFLITTI DI INTERESSE
Ma non c’è solo l’idiozia dell’uno-vale-uno. I tic sono tanti altri. Ad esempio, quello della commistione dei ruoli. Del direttore-non-direttore abbiamo già detto, ma qui si va oltre. Come abbiamo raccontato, il Macro è oggi sotto l’egida del Palazzo delle Esposizioni. Il presidente del Palazzo delle Esposizioni è Cesare Pietroiusti. Ebbene Pietroiusti (un tempo artista rigoroso e attentissimo a questo genere di passaggi), pur essendo presidente dell’istituzione, vi parteciperà in qualità di artista più e più volte solo nel corso del mese di ottobre.
“Non è grave il conflitto di interessi (siamo abituati), è grave che tutto questo venga fatto passare come cosa normale”.
Non è grave il conflitto di interessi (siamo abituati), è grave che tutto questo venga fatto passare come cosa normale. Vogliono convincerci che è normale così. Ovviamente anche De Finis stesso sarà presente: il suo documentario sarà proiettato martedì 9 ottobre alle ore 16. Il direttore che espone un suo lavoro nel museo che dirige. Normale. Come è normale per i signori al potere confondere continuamente il “governo” con lo “Stato” considerandoli alla stessa stregua.
SOVRANISMO PROVINCIALE
Altro punto da non trascurare è il sovranismo strisciante. Impastato di provincialismo. Tutto è autoriferito a Roma. Il museo che si guarda la punta dei piedi, al massimo l’ombelico. Artisti a km0, ha scritto qualcuno. Anche l’appello di cui parliamo sopra è una “automappatura degli artisti della Capitale“. L’orizzonte intellettuale non supera il Grande Raccordo Anulare, le scarse presenze internazionali o nazionali (spesso inseriti nella sezione di videoscreening, ovvero un dvd proiettato giusto per dire di avere quel nome) sono diluite in un blob di creativi della domenica che raramente nella loro vita sono usciti da Roma fisicamente e professionalmente e che portano tutti i difetti e le pesantezze della città, diventate negli ultimi anni insostenibili e ingiustificabili. Il degrado della città andrebbe combattuto, non fotografato. E invece…
Qualcuno potrebbe obiettare che, in fondo, il Macro è una galleria civica e deve guardare alla città. Errore. Le gallerie civiche devono guardare alla città parlando col mondo, o per lo meno con l’Italia. Anche il MAMbo è una galleria civica a Bologna, anche la GAM è stata una civica a Torino o il PAC a Milano o la fu Villa Croce a Genova. Non per questo si sono trasformati in spazi espositivi di parrocchia, di quartiere o di partito (gli artisti romani, pochi per fortuna e sempre mediocri, che si sono spesi per la causa pentastellata non mancano tra gli invitati, naturalmente).
GIORNALISTI E INTIMIDAZIONI
I paralleli tra governo e museo però non finiscono qui: c’è il rapporto con la stampa, l’odio verso i giornalisti, l’allergia alle critiche, le reazioni scomposte. Molti ricorderanno la conferenza stampa di presentazione durante la quale Giorgio De Finis si affrettò a delegittimare i cronisti, altri ricorderanno l’episodio che ci ha riguardato: mandammo una nostra collaboratrice a intervistare il neo-direttore, lei fece l’intervista, lui rispose, poi – visto che si ricordò alcune nostre legittime critiche pubblicate su Artribune qualche tempo addietro – vietò alla collega, intimidendola, di passarci il contenuto. Non potemmo mai pubblicare quell’intervista.
È il metodo Casalino applicato ai musei, per la prima volta. È la gogna della celebre rubrica “Il giornalista del giorno” del blog di Grillo, insufflata nelle istituzioni culturali. Ogni volta che un articolo negativo viene pubblicato sul suo conto, De Finis lo getta nei social in pasto a tifosi e follower, che si divertono a massacrare l’autore di commenti e improperi. È la perfetta trasposizione delle peggiori strategie fasciogrilline.
UN ESEMPIO FRA TANTI
Fin qui siamo stati molto sull’impalcatura intellettuale che sorregge l’esperimento. Ma, entrando nel merito, si trovano chicche. Lo scorrere dei nomi denuncia una nostalgia Anni Novanta: molti soggetti erano interessanti vent’anni fa, se non trenta. Tanto per fare un esempio sopra ogni sospetto (parliamo di amici e di persone che stimiamo profondamente), il seminario sull’editoria d’arte è tenuto dalla rivista Segno, che è un pezzo straordinario di nostra storia editoriale ma che oggi non ha nulla da insegnare (semmai da imparare) rispetto alle arrembanti novità di un settore che sta divorando se stesso. Ma i casi di autentico spirito diseducativo sono tanti altri.
E ALLORA IL PD?
Insomma, il finto anti-establishment in realtà è solo pressappochismo raffazzonato e incurante delle conseguenze. Il parallelo con l’attuale quadro politico è così perfetto che c’è anche il PD. Personificato in questo caso dal sistema dell’arte tradizionale. “Quelli che c’erano prima” hanno talmente sbagliato tutto che l’attuale cialtronaggine al potere risulta quasi una conseguenza inevitabile. Il Macro non aveva un ruolo, non aveva un significato, non era un pezzo di città. Era così inutile e sconosciuto che oggi arriva qualcuno a ridicolizzarlo e nessuno si muove per difenderlo.
L’esperimento di De Finis, dunque, un esito positivo potrebbe effettivamente averlo: suonare la sveglia nei confronti di chi ha contribuito a marginalizzare il mondo dell’arte contemporanea, rendendolo avulso dalle dinamiche civiche e familiare solo a pochi salotti.
In attesa di analizzare gli esiti dell’esperimento non resta che partecipare all’inaugurazione, in attesa di quel momento in cui De Finis si affaccerà al terrazzo salutando la folla acclamante e annunciando la definitiva sconfitta della povertà.
‒ Massimiliano Tonelli
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati