Musei pubblici e depositi. L’editoriale di Stefano Monti
Un’analisi della gestione dei musei pubblici italiani, che spesso considerano i propri depositi alla stregua di magazzini, non valorizzando patrimoni dalle incredibili potenzialità.
Non è soltanto questione di leggi o di regolamenti burocratici: quella dei musei autonomi è una battaglia che si inserisce nel più ampio alveo delle evoluzioni culturali necessarie per il nostro Paese. L’autonomia concreta dei musei vuol dire in primo luogo autonomia manageriale, anzi, vuol dire in primo luogo prevedere un’area manageriale reale nei musei.
Già questa, di per sé, sarebbe una rivoluzione che, ahinoi, non basterebbe, tuttavia, al concreto rilancio del nostro sistema museale.
Detto fuori dai denti, che nei nostri musei latitino management team degni delle migliori imprese private, con sistemi retributivi adeguati, è quasi uno scandalo. La cosiddetta nomina dei super-manager di qualche anno fa aveva forse l’obiettivo desiderabile di abituare l’associazione di questa figura, “il manager”, a quella dei musei, ma le selezioni hanno confermato semplicemente una tradizione molto più antica.
Il risultato? Presto detto.
Recentemente intervistato dalla stampa, il super-direttore Felicori (uno dei casi più positivi di quella nomina) ha affermato che, se dipendesse da lui, vorrebbe come suo successore un ingegnere. Appassionato d’arte, sì, ma ingegnere.
Perché quando si dirige un museo non bisogna pensare soltanto alla collezione, ma anche a tutto il resto. E tolti gli “inglesismi” che fanno tanto businessmen, nei musei si continua ad avere un’attenzione quasi esclusiva sulla collezione. Che è come dire che l’iPhone lo compreresti anche se lo vendessero in un negozietto malfamato dietro una stazione.
In nome della “collezione”, del “patrimonio” i nostri musei ed esperti e conservatori hanno sempre potuto contare su una voce più forte rispetto alle altre dimensioni che, in sordina, soprattutto grazie all’esterofilia che ci contraddistingue, si stanno gradualmente affermando.
L’esempio più lampante? I depositi.
Magazzini che per anni hanno goduto di un’aura misteriosa che nemmeno Indiana Jones e che contengono opere e, in alcuni casi, capolavori, preclusi alla vista del pubblico, ottenendo lo stesso effetto che i “conservatori” rimproverano nel momento in cui un’opera d’arte viene ceduta al privato, vale a dire la riduzione delle possibilità di fruizione da parte della collettività, che estrae l’opera dalla categoria dei cosiddetti beni pubblici e dei beni comuni, incidendo sulle caratteristiche di “rivalità” e di “escludibilità del consumo”.
Per quanto negli ultimi anni la questione dei “depositi” abbia suscitato un interesse crescente, un recente studio, pubblicato da Quartz, ha svelato come, in realtà, nei depositi giacciano veri e propri patrimoni, e che anche per gli artisti più famosi (nomi come Picasso, Schiele ecc.) esistano numerose opere che non vengono esposte ai visitatori.
Numeri che, quantunque non riferiti alla sola esperienza nazionale, fanno riflettere.
In merito alla questione dei depositi è stata molto discussa la possibilità di realizzare attività di deaccessioning, definito come il processo attraverso il quale un’opera d’arte o un altro oggetto viene permanentemente rimosso dalla collezione di un museo.
Questo fenomeno, tuttavia, ha trovato forte contrasto da parte degli esponenti della cultura, soprattutto europea: “I depositi rappresentano il luogo deputato alla decantazione di una raccolta. Paragono i depositi di un museo a una biblioteca. I libri sono raccolti per argomento, per epoca, lungo scaffali. Solo attraverso un computer o direttamente in una sala di lettura possiamo accedere al contenuto dei testi. Chi potrebbe pensare che tutti i libri debbano essere letti contemporaneamente da un lettore accanito?”, scrive Piva nel 1995.
Argomentazioni che, in parte, possono essere condivise.
“Perché, ai fini della divulgazione culturale, non immaginare un processo che trasformi i musei” poco frequentati in depositi, e trasformi invece i depositi in musei?”.
Detto ciò, tuttavia, è anche vero che, per quanto questa struttura del pensiero possa essere valida secondo una linea logica che prevede che “il deposito del museo sia il riflesso dei gusti e delle acquisizioni nel corso del tempo”, è anche vero che, nella pratica di tutti i giorni, quando cambiamo gusti in fatto di abbigliamento, non avviamo una pratica di accumulazione seriale, ma decidiamo cosa, del nostro vecchio guardaroba, tenere o eliminare.
Dal punto di vista storico, anzi, la stessa selezione del “ceduto” sarebbe, di fatto, una manifestazione culturale.
Atteso quindi che l’autonomia di un museo dovrebbe manifestarsi nelle pratiche manageriali, appare chiaro che, al giorno d’oggi, questo obiettivo acquisti più il carattere di un’illusione se, di fatto, non si riesce a disporre nemmeno della gestione delle opere a disposizione.
A ben vedere, la pratica del deaccessioning, ad esempio, non dovrebbe nemmeno riguardare cessioni di opere a privati: si potrebbero in questo modo tutelare quei principi di cui tutti si ergono difensori (non escludibilità e non rivalità al consumo) attraverso la cessione di alcuni “depositi” o selezione degli stessi ad altri enti pubblici che, dal punto di vista statutario, prevedano le stesse responsabilità di tutela e di divulgazione dei nostri attuali musei.
Chi ci dice che tali depositi non nascondano opere il cui valore riuscirebbe anche a superare le opere esposte negli oltre 200 musei italiani che, nel 2017, hanno accolto meno di 5mila visitatori totali?
Perché, ai fini della divulgazione culturale, non immaginare un processo che trasformi i “musei” poco frequentati (e che, quindi, non tengono fede alla loro vocazione statutaria) in depositi, e trasformi invece i depositi in musei?
‒ Stefano Monti
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