Migranti e integrazione: il ruolo della cultura. Due storie da Matera 2019
Il tema dell’immigrazione può essere affrontato spingendo sul tasto dell’irrazionalità, del cinismo e della marginalizzazione, oppure su quello dell’integrazione, dell’umanità e della costruzione. La cultura sceglie la seconda via. Con progetti mirati e spesso brillanti. Ecco due esempi da Matera.
Il Paese è spaccato in due e non è un caso. Legge intramontabile: con più favore il potere semina e raccoglie là dove il conflitto si fa norma, modello orizzontale. Dopo il blocco della nave Diciotti a Catania e dopo i casi di respingimento dell’olandese See Watch – l’ultimo dei quali avvelena il dibattito in queste ore, nell’osceno limbo di 47 profughi in balia delle onde, fermi a un miglio dal porto “chiuso” di Siracusa – il senso di questa ferita è evidente. Perfettamente incarnato nella cronaca.
C’è un’Italia più vasta, e forse più rumorosa, che dinanzi alla questione “immigrazione” si abbandona a un sentimento di diffidenza, di violenza, di terrore: tutto è imputabile allo spauracchio dello straniero; le molte declinazioni del tema “precarietà”, così drammaticamente centrale nell’Occidente contemporaneo, si condensano nella figura minacciosa di chi ruba lavoro, sicurezza, identità culturale, tradizioni religiose, addirittura – in un rigurgito di patriarcato fascista – prendendosi le “nostre donne “. L’uomo nero porta via tutto, in primis la serenità. Il nemico perfetto.
L’altro pezzetto d’Italia affronta la nuova isteria xenofobo-sovranista con attacchi di orticaria e appelli al senso perduto dell’umanità, ma soprattutto con un tentativo di risposta razionale, che nelle solite social-gag diventa “buonismo da professoroni”: numeri, fact cheching, dati oggettivi, operazioni di debunking, ipotesi di sintesi tra regolamentazione e accoglienza, iniziative per l’integrazione. Roba (purtroppo) con scarsissimo appeal.
La delegazione sta tornando a terra.
I 47 naufraghi rimangono ostaggio del governo e della sua barbara propaganda.
Salvare in mare non è un crimine, tenere in ostaggio le persone si.#SeaWatch #United4Med pic.twitter.com/TBgQ0n5ah2
— Sea-Watch Italy (@SeaWatchItaly) January 27, 2019
OLTRE L’EMERGENZA
La questione umanitaria è serissima, con l’orrore dei lager libici, della carestie e di certe guerre efferate a disturbare il sonno delle (residue) coscienze. Intanto i processi di gestione equa e l’approccio intimamente democratico, che l’Europa dovrebbe naturalmente conservare, si schiantano contro la miopia dei singoli Stati. I quali fanno sovente della vicenda migratoria un enorme spot propagandistico, principale strumento di consenso politico e spietata arma di controllo del sentire collettivo. Con un errore di fondo: affrontarla come emergenza, quando si tratta e si tratterà di routine, di destino necessario. Già solo lo spettro del cambiamento climatico (unito ad altre macro variabili di natura bellica, economica, energetica, demografica) dà la misura dei disequilibri che vivremo. Niente e nessuno fermerà le rotte dei popoli oppressi o stremati, non ci sarà legge straordinaria o capopopolo di turno in grado di arrestare la logica dei grandi spostamenti, il sorgere di nuove geografie sociali, la naturale contaminazione tra i linguaggi e le culture.
CULTURA, ARTE E INTEGRAZIONE
E proprio la cultura, in questo quadro, un ruolo ce l’ha. Enorme. Non solo nelle molte prese di posizione che artisti, scrittori, personaggi dello spettacolo, filosofi, giornalisti, sempre più spesso assumono pubblicamente. E non solo negli innumerevoli progetti che vedono la luce, tra mostre, campagne di comunicazione, opere d’arte: a volte occasioni importanti e di valore, altre – com’è ovvio che sia – tentativi falliti o fallici, non esenti da cliché, retoriche leziose, esercizi di contro propaganda. Narrazioni che definiscono, in ogni caso, un altro paesaggio, un’altra sensibilità attiva.
E poi ci sono i processi, per l’appunto. Che non sono solo quelli politici e di governo, ma anche quelli condotti dal basso, tra le maglie delle società, aggrappandosi alla cultura come veicolo prioritario per la definizione di percorsi d’accoglienza, buone pratiche e format d’integrazione. La vera scommessa di domani.
MATERA 2019. LA SARTORIA DI IBRAHIM
Non poteva non esserci, nei programmi di Matera Capitale Italiana per la Cultura 2019, un riferimento all’interculturalità e all’immigrazione. Un esempio arriva dalla Silent Academy, realtà nata dalla sinergia tra la Cooperativa il Sicomoro e la Fondazione Matera 2019. Il modello è quello della Silent University, ideata nel 2012 dal celebre artista curdo Ahmet Ogut nell’ambito di un programma della Tate Modern e destinata a dare voce – grazie a prestigiosi network – a un esercito di talenti silenziosi, rimasti ai margini: profughi, migranti, richiedenti asilo.
Anche nella versione italiana si lavora per valorizzare chi, arrivando, è in cerca di una possibilità, di un riscatto. Tra i maestri della Silent Academy c’è Ibrahim Savane, un ragazzo della Costa d’Avorio, nato ad Abidjan nel 1990. Nemmeno 30 anni ed è già lì, in prima fila, a trasmettere abilità, segreti e finezze del “fatto a mano”. A beneficio di tanti altri giovani come lui.
Ibrahim inizia a cucire a 12 anni, nella bottega dello zio. Non ha soldi per studiare moda, ma ha passione e vocazione. E la svolta arriva presto: lo nota per caso il maestro Eloi Sessou. E lo vuole nel suo atelier. Ibrahim ha 16 anni e sa che quello è un passaggio decisivo, a fianco di una stella del fashion made in Africa. Poi, il coraggio di spiccare il volo: Ibrahim è maggiorenne e vuole mettersi alla prova. Ha tenuto da parte un po’ di soldi, lavorando sodo nei giorni del gioco e della spensieratezza. Apre un suo negozio nel quartiere dell’alta moda di Abidjian, ha due assistenti, disegna e confeziona abiti per l’alta borghesia locale, per i politici e i rappresentanti istituzionali, per molti professionisti affermati. Il sogno è realtà. Ma ha vita breve. Nel 2010 scoppia un cruenta guerra civile: l’esercito delle Forze Repubblicane della Costa d’Avorio (FRCI), in supporto al neo-eletto presidente Ouattara, assaltano decine di città per ottenere il controllo del Paese. Tra i nomi degli oppositori finisce anche quello di Ibrahim. È l’inferno, la fine di tutto. Da giovane sarto in carriera a perseguitato politico. Il ragazzo scappa e trova riparo in Italia. Matera 2019 e la Silent Academy sono oggi il suo presente, il suo futuro, la sua scommessa nuova.
UNA SFILATA SIMBOLICA. ABITI PER NON DIMENTICARE
Lo scorso 19 gennaio, in occasione delle celebrazioni per l’incoronazione ufficiale della città a Capitale della Cultura, hanno sfilato per strada quaranta abiti dorati, realizzati da Ibrahim e dai ragazzi dell’Academy, in collaborazione con lo street artist torinese BR1. Il tessuto era quello degli ormai noti “emercency blanket”, i teli isotermici che avvolgono i migranti salvati tra le acque del Mediterraneo. Un materiale usato e abusato, un simbolo tragicamente pop soggetto a continue forzature retoriche, che qui però si fa testimonianza vera. Non il pretesto facile per una velleitaria opera d’arte a sfondo sociale, ma la materia prima di una collezione sartoriale in cui il talento di uno diventa esempio e occasione per il talento di molti.
Tra le modelle, lungo il corteo, c’era anche Tessy, col figlioletto Harrys. Lei lavora in una pizzeria di Matera; lui, il piccoletto, è venuto al mondo nel 2017 e ha un certificato di nascita italiano. Era incinta, Tessy, quando sfidò la furia del mare per salvarsi da morte certa, portando con sé cicatrici fisiche e psicologiche. Il suo barcone di fermò a Lampedusa e il destino la condusse a Matera, che oggi è per lei la casa, l’idea di rinascita, un quotidiano gioiosamente normale. Così ha sfilato, Tessy, quel sabato pomeriggio di gennaio, vestita da sposa: a fasciarla una sontuosa creazione ricavata con quel metallo sottile che scalda e protegge i naufraghi dopo l’approdo.
Ognuno di quei capi, ognuno di quei ragazzi dalla pelle scura, che li indossavano tra le vie del centro, erano e sono frammenti di una gigantesca odissea umana, politica, sociale. Quando un abito fa quello che gli abiti migliori imparano a fare: raccontare storie, sintonizzarsi con lo spirito del tempo e reinventare certi codici complessi.
FORMAZIONE E INCLUSIONE SOCIALE. INCREA PROJECT A MATERA
Ancora competenze, ancora la cultura come chiave, il sapere come volano. Ancora Matera 2019 e un piano di formazione e integrazione sociale per i migranti.
Laddove l’attuale governo italiano lavora per marginalizzare, respingere, cassare i progetti di inclusione, indebolendo o annullando canali rodati come le reti SPRAR (sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati, attivo fino a ieri su base comunale), altre piattaforme indipendenti e internazionali si muovono in senso inverso. Increa Project, ad esempio, è un progetto europeo pensato per sottrarre migranti e rifugiati adulti alla ricorrente condizione di esclusione dai sistemi educativi e culturali. Perché è un fatto logico (o dovrebbe esserlo): più disagio e isolamento si producono, più l’immigrazione resterà un problema, sia sul piano della realtà che su quello della percezione. Che è – in tutta evidenza – il vero obiettivo di certe macchine per la costruzione del consenso.
Increa, che il prossimo luglio sarà a Matera per dei corsi destinati a chi dovrà formare i migranti sul territorio, punta proprio a ridurre le diseguaglianze in fatto di padronanza linguistica, alfabetizzazione digitale, spirito imprenditoriale e nozioni di management, ponendo le basi per l’accesso al mondo del lavoro, il superamento dei ghetti sociali, il miglioramento del proprio background.
Da qui la messa a punto di speciali pacchetti con materiale didattico e di metodologie non convenzionali, utili a costruire percorsi di studio e attività creative. I partecipanti stranieri, al termine dei corsi, potranno spendere il patrimonio acquisito nella creazione di business, per il lancio di attività proprie o l’inserimento in organici qualificati. Diversi i partner che stanno strutturando le sessioni estive per Matera, rivolte a educatori e operatori sociali a contatto quotidiano con i migranti: Coopération Bancaire pour l’Europe, Arnera (organizzazione non profit), CCS Digital Education, Treball estades i formació – Open Europe Reus, UPI – ljudska univerza Žalec.
Un’altra via è possibile. Ed è quella culturale. La stessa che consente il radicamento (non così scontato) delle conquiste fondamentali in fatto di diritti umani e civili: il lavoro formativo da fare, in questo caso, sarebbe per quei figli del benessere, dell’alta scolarizzazione, delle odierne democrazie e di una intolleranza nuova, a cui qualcosa dev’essere clamorosamente sfuggito.
– Helga Marsala
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