A Roma il Comune vieta di aprire gallerie d’arte a causa di una delibera folle
Una delibera datata aprile 2018 impedisce l'apertura nel centro della città di gallerie d'arte ponendo paletti invalicabili. La norma è figlia di una delle tante mentalità malate che sta uccidendo giorno dopo giorno la capitale d'Italia.
Pare surreale, ma è tutto vero. Ed è vero ormai da un anno. Nella città che non riesce a vietare le bancarelle che disturbano aree storiche, monumenti e strade dello shopping, nella città che non riesce a togliersi di mezzo venditori di souvenir e camion bar piazzati perfino davanti ai Musei Vaticani, si vieta di fatto l’apertura delle gallerie d’arte in tutta l’area centrale.
LA DELIBERA 48/2018
Questo è successo a seguito dell’approvazione della Delibera 48 del 2018 da parte del Consiglio Comunale di Roma all’epoca presieduto da Marcello De Vito, da mesi in galera. Si tratta del “Regolamento per l’esercizio delle attività commerciali e artigianali nella Città Storica”, ovvero nella parte più pregiata della città di Roma: Primo Municipio e altre aree circostanti, qualcosa di decisamente più grande del solo centro storico della Capitale. In tutto questo territorio è di fatto impossibile aprire una nuova galleria d’arte benché l’attività sia annoverata da tra quelle tutelate. Tutelate sì, ma molto vincolate da paletti semplicemente surreali. Chi volesse provare ad aprire una nuova galleria dovrebbe essere presente con questa attività nelle liste della Camera di Commercio da almeno 3 anni e dovrebbe disporre di uno spazio commerciale almeno di 150 mq. Un combinato disposto che elimina tutti i nuovi del mestiere, impedisce il ricambio e uccide definitivamente qualsiasi velleità da parte di giovani galleristi di ricerca.
DA DOVE ARRIVA UNA NORMA FOLLE?
Ma perché il Comune ha infilato nel dispositivo una normativa così forsennata? Semplice idiozia grillina (non sarebbe una novità, beninteso) o c’è dietro qualche motivo recondito? La risposta può essere ben compresa solo se si è un poco abituati alla mentalità capitolina secondo la quale nessun problema può (né tantomeno deve) essere risolto, ma piuttosto tutti i problemi debbono essere circumnavigati da una legislazione che non supera le anomalie, ma vi si adatta. Succede infatti che il concetto merceologico di “galleria d’arte” consenta anche, per una percentuale dello spazio, di effettuare somministrazione di cibo e di vino. Questo ha fatto sì che la precedente normativa del 2010, che vietava l’apertura in centro (zona assai congestionata e satura) di locali di somministrazione di cibo e bevande venisse di fatto aggirata: bastava aprire una “galleria d’arte” e poi si mettevano quattro foto del cugino alle pareti chiamando questo “mostra” e poi di fatto si allestiva un cocktail bar o una paninoteca. Giustamente bisognava reagire, ma invece di modificare la norma a monte (indicando che “galleria d’arte” può essere solo un posto che fa mostre d’arte, senza altri contenuti), si è deciso di lasciarla fallata e inasprirla a valle: galleria d’arte può essere ancora una copertura per aprire un locale notturno, ma solo a certe condizioni molto difficili da raggiungere. Si butta così il bambino con l’acqua sporca!
IN ASSESSORATO SI CURANO SOLO DEGLI SPAZI OCCUPATI
Non è un caso se da mesi, a Roma, di gallerie d’arte non ne aprono praticamente più. Semmai ne chiudono. Ma questo non sembra interessare molto l’amministrazione e in particolare l’assessorato alla cultura: ormai chi si reca ad appuntamenti e incontri negli uffici di Luca Bergamo trova intere scrivanie trasformate in distributori di volantini per gli spazi occupati e i centri sociali e l’assessore stesso sembra interessato solo a quel tipo di cultura. Se sei un imprenditore serio, sano, onesto, che vuole stare nelle regole non conti granché, se invece occupi un edificio non tuo, pretendi di scaricare su altri il pagamento delle bollette o fai progetti senza curarti dei costi dell’affitto e della burocrazia hai tutto l’appoggio da parte dell’amministrazione. Gli ultimi beniamini di Luca Bergamo sono i ragazzi della rivista studentesca “Scomodo”, un bel progetto giornalistico che ha deciso di ‘crescere’ creando la propria redazione-sede in uno spazio illegale a dispetto di ogni regola e dando un virtuale schiaffo in faccia a tutte quelle redazioni con sede a Roma – come ad esempio la nostra – che fanno i salti mortali per rispettare minuziosamente tutte le norme. I ragazzi di “Scomodo”, gli ‘operatori culturali’ che hanno occupato il Cinema Palazzo e decine di altri prepotenti e furbetti che investono la propria esistenza a nascondere illeciti più o meno gravi dietro a ipocrite maschere mecenatistiche, delle delibere non si devono interessare perché tanto loro possono non rispettare nessuna legge. Per loro le norme possono essere di qualità oppure possono essere fatte coi piedi, non gli cambia granché perché rispondono solo a loro stessi infischiandosene di tutto. Le leggi riguardano solo i gestori di teatro, gli esercenti di cinema, i martirizzati organizzatori di eventi e di festival musicali, i vessati responsabili di associazioni culturali (quelle vere), i galleristi appunto e mille altri attori dello scenario culturale che risultano invisibili, che non sono considerati da nessuno, che non esistono colpevoli soltanto di provare a fare cultura e impresa rispettando le leggi. Un personaggio come Christian Raimo, che a Roma fa l’assessore alla cultura in un Municipio (!), sostiene e lo mette per iscritto a più riprese che senza gli spazi occupati la cultura a Roma semplicemente non esisterebbe (l’ultimo suo editoriale in questo senso apparso sulla cronaca locale Repubblica risale a pochi giorni fa, chi non è debole di stomaco lo può andare a rileggere). Confermando che per tutta una fascia di amministratori, intellettuali e politici (la fascia che ha condannato la capitale ad essere quello che vediamo) gli operatori culturali ‘normali’ semplicemente non esistono. Sono dei fantasmi.
LO STRATAGEMMA PER APRIRE UNA GALLERIA D’ARTE
E così quei pochi eroi-fantasmi quotidianamente umiliati che, dopo mesi di lotta con la burocrazia, sono riusciti ad aprire uno spazio privato autenticamente culturale nel centro di Roma, hanno dovuto ricorrere a delle strade alternative, sebbene legali. Se sei un giovane gallerista e vuoi aprire un piccolo spazio di ricerca a Trastevere o a Campo de’ Fiori o a Prati, insomma, devi registrare la tua attività non come galleria bensì come “agenzia d’affari”, forte del fatto che non vendi prodotti ma fai da intermediario tra chi li produce (l’artista) e chi li compra (il collezionista, ammesso che con questa atmosfera a Roma ve ne sia qualcuno superstite). In questo modo, in parte, la norma può essere aggirata a fin di bene, ma per arrivare a questa soluzione alcuni operatori hanno dovuto investire mesi e mesi di tempo e di pellegrinaggi nei kafkiani dipartimenti di Roma Capitale. Perdendo un sacco di soldi circondati da istituzioni che li ostacolavano invece di aiutarli.
LA MENTALITÀ POLITICA CHE CORRODE ROMA E LAZIO
Fatta la legge trovato l’inganno dunque? Non è così semplice. Risultando “agenzia d’affari”, una società a quel punto non può effettuare application ad esempio per i bandi europei e non può accedere alle occasioni di finanziamento dedicate alle “gallerie d’arte” non essendolo de jure. Questo problema è paradossalmente molto attenuato nel Lazio, la Regione infatti orienta quasi tutti i suoi bandi di finanziamento e sostegno culturale solo ad attività non profit escludendo per meri motivi vetero ideologici qualsiasi società di capitali. Chi si occupa di cultura – è il ragionamento non detto all’ente gestito da Nicola Zingaretti – non deve fare impresa, non deve star sul mercato, non deve guadagnare (orrore!), non deve essere imprenditore ma solo volontario. “Con la cultura non si mangia” disse Tremonti, “con la cultura non si deve mangiare” confermano questi amministratori; solo che la prima era una boutade forse neppure mai pronunciata, la seconda è una posizione ideologica che genera norme e determina scelte che impattano sulla vita delle persone. Poco importa poi, come tutti sanno, che questo approccio serva solo da salvacondotto per migliaia di finte associazioni culturali che sono non profit solo su carta, ma che poi fanno attività imprenditoriale semplicemente non dichiarandolo, non pagando tasse, eludendo le norme, esercitando la più meschina delle concorrenze sleali sui colleghi di comparto. Purtroppo l’appeal elettorale dei palazzi occupati, di chi specula sul disagio così come delle associazioni culturali fake è troppo attraente per essere trascurato. E questo vale per Zingaretti così come per Bergamo visto che su molte questioni il vecchio Pd e il già vecchio M5S sono uguali e, in questo, sovrapponibili alla destra meloniana che imperversa in città. Questa gente – occupatori di professione, alfieri del raggiro e maghi delle fasulle associazioni culturali – ha capacità di organizzarsi e spostare voti e non è lo stesso per i piccoli imprenditori onesti che tra mille difficoltà provano ancora ad operare nella Capitale spesso in solitudine e quasi mai con capacità di coalizzarsi e “contare” a livello di consenso. Figurarsi per i galleristi onesti, attuali e futuri, che secondo l’amministrazione manco esistono. Ammenoché non decidano prima o poi di occupare, scassinare, violare qualche norma e crearsi qualche scorciatoia per buggerare il prossimo. Del resto, come i nostri lettori ricorderanno, quando si trattò di scegliere il direttore del Macro, l’assessore Luca Bergamo tra decine di bravissimi giovani curatori a disposizione che avrebbero meritato una chance e che si erano fatti una gavetta e un curriculum di riguardo, scelse un suo compagno di scuola, giustificandolo col fatto che aveva diretto le operazioni culturali in una ex fabbrica di salumi illegalmente occupata. Un’occupazione per la quale, beffa delle beffe, lo Stato italiano è stato multato, vista l’incapacità conclamata di sgomberarla e restituire il bene ai legittimi proprietari, per qualcosa come 28 milioni di euro. Che pagheremo tutti, galleristi inclusi. I quali, però, dimostrano scarsissima capacità di mobilitarsi, di farsi sentire, di protestare, di reagire, di dimostrare di esistere. E forse il problema è anche qui…
– Massimiliano Tonelli
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