È il momento di agire. Punti di vista sul futuro

Parola a Dario Nepoti, fondatore della Scuola Politica Gibel, che tenta di scuotere le coscienze verso la necessità di un cambiamento necessario. Ora più che mai.

Questo scritto nasce nel tentativo di delineare un metodo che possa essere utile a non disperdere le idee e il sentimento che ci sta accomunando di una società più equa, giusta, ecologica e umana.
Occorre una politica nuova che abbia come primo obiettivo quello della riconfigurazione delle istituzioni, unici dispositivi capaci di attuare le politiche a innescare un cambiamento duraturo e profondo e di tracciare una traiettoria. Riuscire in questa operazione necessita di un piano comune, un patto per il futuro, che veda pubblico e privato nuovamente coesi e capaci di dialogare con le arti, la cultura e l’architettura. In ultimo servono risorse per finanziare questa progettualità, perché senza risorse è come provare a fare un film senza il produttore. Siamo allenati a rispondere a questo genere di sfide?

BREVE STORIA DEL SALTO

Le trasformazioni avviatesi durante il Novecento hanno prodotto nel tempo un’accelerazione dei vari ambiti della società e dei parametri vitali della geosfera. Soprattutto durante la guerra fredda, la ricerca militare produsse una grande quantità di nuove tecnologie, per riuscire a suscitare nel nemico il maggior terrore possibile. Con la caduta del muro di Berlino, la fine del duopolio e l’avvento del modello global-consumista, la politica, che per decenni era stata la regina del palcoscenico, focalizzata com’era sulla vittoria, non si rese conto che il nuovo stava da anni prendendo forma e che per governarlo ci sarebbe stato bisogno di ben altre infrastrutture di governo, capaci di reggere l’urto della crescita globale che stava giungendo.
Negli Anni Novanta, la società esplose in tutto il suo “ruggente benessere” e la politica perse il suo primato entrando in una fase di letargica quiescenza, privando così il futuro di uno dei più importanti elementi per la propria tenuta e salvaguardia. Iniziò dunque una crescita sfrenata, così potente da modificare la percezione e l’idea stessa di spazialità e di tempo, capace di incidere sui concetti-pilastro della società e del vivere, come l’idea di confine e di limite. In trent’anni, abbiamo assistito alla quasi fusione tra le infrastrutture reali e le nuove infrastrutture digitali, senza chiederci quali fossero i motori di questa massiccia evoluzione e crescita e, senza produrre scenari o previsioni, compito che sarebbe dovuto spettare proprio alla politica. Ma una crescita priva di governo è una crescita priva di costrizioni e, senza traiettorie di riferimento, la responsabilità della società verso se stessa e verso le future generazioni viene meno e con questa la relazione tra noi e ciò da cui tutti noi traiamo la vita, ossia la terra. La risultante è un pianeta in trasformazione nel quale aumento delle temperature medie, scioglimento dei ghiacciai, mutamento dei climi regionali, migrazioni, esaurimento delle risorse, epidemie sono già scenari normali e non più eccezionali, come erroneamente ci ostiniamo a trattarli. Cosi siamo già all’interno di una rivoluzione che sta diffondendo attorno a noi sensori per misurare ogni fenomeno, spostamento, ecc., fornendo dati per elaborare strategie predittive o per “guidare” i nostri comportamenti in un assoluto vuoto politico.

Essere guidati da politici privi di radici è come essere guidati da aquiloni in balìa della tempesta, mentre dai politici dovremmo pretendere che sappiano ‘danzare con la tempesta’”.

Stiamo adesso acquisendo la consapevolezza di ciò che abbiamo messo in moto e di quanto le nostre istituzioni siano poco adeguate a reggere il peso del presente. Basti pensare a come la finanza, trasformatasi nella più complessa macchina algoritmica mai creata, stia contribuendo quotidianamente, per esempio tramite l’high frequency trading, alla drammatica espansione delle nuove diseguaglianze e al nostro continuo fallimento nel normarle. Ci stiamo rendendo conto di quanto sia necessaria una politica nuova capace di mettere in moto un radicale cambio di traiettoria, uno slancio democratico per governare il nostro tempo. Primo passo è quello di far uscire dallo stato di obsolescenza le nostre istituzioni, i metronomi della nostra società, ciò che ci permette di vivere, evolverci, rimanere coesi. Per farlo occorre distaccarci da quanto ci siamo concessi e abituati a fare negli ultimi trent’anni e che ci sta portando verso una realtà a senso unico, occorre mettere la parola fine a quel modus operandi che sta facendo della costruzione del consenso politico una micidiale levatrice di frontman e di politici “viveur”. Una politica che segue ciecamente l’algoritmica del consenso sta producendo partiti e classi di governanti devoti all’istante, seguaci dei trend, privi di capacità di sintesi, costruzione e visione. La politica – in uno stato di diritto ‒ è l’arte del guidare lasciando a chi segue il diritto di non adeguarsi. La politica stabilisce il suo primato con l’obiettivo di costruire pace e coesione.
Essere guidati da politici privi di radici è come essere guidati da aquiloni in balìa della tempesta, mentre dai politici dovremmo pretendere che sappiano “danzare con la tempesta”.
Abbiamo bisogno di un piano comune capace di agire con metodo e coerenza verso l’obiettivo trasversale di riconfigurare nel tempo l’infrastruttura istituzionale che ci sostiene, renderla nuovamente coesa e capace di tessere ampie strategie per la tenuta democratica, economica e formativa dei Paesi. Per farlo sarà necessario ridefinire la relazione con la cultura, le arti e l’architettura, fondamentali per l’immaginazione e l’esplorazione delle nuove forme del possibile tra spazio reale e virtuale, così per facilitare l’indagine tra le discipline. Quale potrebbe essere una nuova configurazione di Nazioni Unite sulla base degli obiettivi, delle sfide in corso e della portata di ciò che stiamo vivendo? Quale potrebbe essere il nuovo assetto dell’Unione Europea considerato il discreto fallimento di quello attuale, troppo rigido, burocrate e permaloso? Quale il rapporto tra le Città, le Regioni e il Governo per definire un sistema capace di far fronte unitamente alle emergenze e che possa garantire efficacia, privacy e tutela delle libertà individuali e collettive? Quali le nuove forme e gli scopi delle Istituzioni museali e o culturali in un momento contraddistinto dal disorientamento e dalla necessità di fare sintesi tra passato e futuro?
Se continueremo a negare l’evidenza, la strada è già tracciata verso un’accezione autoritaria dello Stato. Già nel 2015, a seguito della strage al Bataclan, Alain Badiou pubblicò un saggio, Il nostro male viene da più lontano, nel quale considera il pericolo dello stato di eccezione. Ovvero, di fronte a fatti o fenomeni anomali, lo Stato, come sancisce la Costituzione, si comporta in maniera eccezionale; Badiou in quel libro ne osserva la sottile ambiguità, parlando di un pericolo nascosto dietro ai nostri stessi sistemi di salvataggio, dispositivi e norme che viaggiano a velocità differenti.
Gli ultimi trent’anni ci hanno abituato a film, opere e letteratura raffiguranti un futuro catastrofico, dispotico, spesSo irreversibile, che sia il tempo di abituarci a modellare un altro scenario?

OLTRE LE IDEE ALLENAMENTO E FORMAZIONE, LA NOSTRA PIÙ GRANDE FORZA

Qual è il nostro stato di salute civile? Siamo pronti a ripensare le strutture che ci governano? Sappiamo come preparare chi dovrà operare nei prossimi dieci/quindici anni teorizzando, modellando e concretando una vasta, quanto necessaria, opera d’ingegneria istituzionale? È un’illusione ottica pensare che sia possibile cambiare nell’arco di qualche mese, poiché occorreranno anni prima di trovare il giusto assetto e ritornare a governare la matassa – burocratica e algoritmica ‒ nella quale oramai siamo persi. E sarà dura. Siamo allenati a farlo? Cresciuti nell’epoca della grande accelerazione senza traiettoria, abituati a una società istantanea, precoce in tutto, con coefficienti di attenzione sempre più fragili e una relazione con la fatica mentale tutta da mettere alla prova, noi tutti siamo chiamati a una prova per la quale non siamo stati preparati ma che sappiamo di poter sostenere. Per affrontare questo tempo abbiamo bisogno di nuovi luoghi per la formazione politica e per la formazione di tutte quelle arti che sono nutrite dal medesimo spirito rigenerante. Abbiamo bisogno di educarci a rendere ciò che è straordinario ordinario, per comprendere come integrare ciò che abbiamo appreso dal nostro tempo – trasversalità, algoritmica, abilità nel gestire la superficie ‒ con ciò che sono i saperi fondamentali che ci hanno permesso di arrivare fino a qui.  Questo vale per tutti i cittadini che vogliono trasformare le loro idee in nervature reali della società. Occorre un continuo allenamento, quel tipo di preparazione all’incontro, allo scontro, alla sintesi, al costruire, alla diplomazia, alla pazienza, all’incassare in nome di una visione alla quale, noi come società civile attiva, non siamo forse più abituati. Ciò a cui stiamo andando incontro appartiene a chi avrà il coraggio di osare con determinazione e immaginazione.

Abbiamo la possibilità di essere ricordati come la generazione che ha detto NO”.

Leggiamo le ipotesi sul distanziamento sociale, di come la nostra vita cambierà, di come a ogni epidemia scatteranno i piani di contenimento seguiti da piani di emergenza, assetti finanziari lampo, ammortizzatori sociali; tutte cose adatte per il breve periodo, ma poi? Siamo davvero disposti a ridurci a questo? A una tale mancanza di bellezza e “londoniana” avventura? È il lungo periodo a doverci interessare ed è il lungo periodo a non dover essere lasciato a chi in questi ultimi trent’anni ‒ nel vuoto politico ‒ si è costruito gli strumenti per condizionarlo. Se allenati, formati e determinati, possiamo impossessarci di una nuova arte politica, per avere la capacità di innescare uno slancio democratico senza precedenti, atto a ripensare le istituzioni, nostri baluardi e garanti. Una politica nuova per attuare un’inversione radicale della traiettoria, perché questa volta non potrà tornare tutto come prima.
Una politica intrisa della forza più grande, la conciliazione tra l’essere femminile e quello maschile, perché non si può pensare il futuro se prima l’uomo non fa un passo indietro nella comprensione che la parità dei generi è il motore immobile per una società serena.
Abbiamo la possibilità di essere ricordati come la generazione che ha detto NO ‒ nell’accezione camussiana di un NO che apre ad altre possibilità ‒ alla società dei consumi e dell’accumulo; NO all’automatizzazione senza prima aver elaborato uno scenario che ne studi gli effetti tra i più deboli, così da non calpestare gli ultimi frammenti di dignità di cui disponiamo; NO alla sicurezza biometrica e all’uso di algoritmi previsionali senza prima aver riscritto la Costituzione e riconfigurato la relazione tra le istituzioni e le persone; NO alle ricerche sulle armi di nuova generazione senza prima aver ridefinito le istituzioni per tenuta della pace nel mondo; NO alla devastazione della natura e degli ecosistemi selvatici, capaci di preservarci  dagli agenti atmosferici e naturali barriere per il contenimento dei virus.
Siamo la generazione che può ambire a una politica nuova, capace di contemplare la dimensione locale e i nuovi assetti geostrategici.
Che internet diventi un’infrastruttura pubblica, bene dell’umanità, nonché protettrice dei nostri dati; che le big corporation dell’infosfera paghino le tasse equamente in proporzione ai loro fatturati; che la finanza paghi per ogni transazione speculativa; che vi sia una seria riflessione sul perché continuiamo ad accettare i paradisi fiscali; che gli allevamenti in batteria e le colture estensive siano abolite perché siamo già in grado di nutrirci attraverso altri sistemi ecologici e rigeneranti, e mangiare è un atto agricolo; che il nostro PIL incentrato sulla misura della semplice produzione – quindi includente le catastrofi e le guerre, gli omicidi e l’inquinamento – possa essere integrato da altri sistemi di indicatori misuranti il benessere dell’ecosistema, dell’uomo e la qualità delle sue relazioni; che l’istruzione pubblica torni a forgiare futuro a partire dalla messa a norma dell’edilizia scolastica che necessita di ogni nostro sforzo, un new deal auspicabile che già da solo interesserebbe trasversalmente dall’industria alla cultura.
È qui, in questa situazione, che le arti e l’architettura devono riprendere coraggio assumendo un ruolo attivo ‒ anche se non sarà richiesto loro – e di responsabilità, essendo il plasma dell’umano che senza sosta opera sulle semantiche e sulle sintassi, costruendo e configurando. Abbiamo bisogno di un nuovo nomos politico, avventurandoci nella possibilità di pensare una politica algoritmica capace di reggere il confronto con l’infosfera e che ne possa guidare i tempi di sviluppo e i modi di fusione con il reale.  Pubblico e privato devono nuovamente costruire un patto per il futuro, rivolto al pianeta, sapendo che le possibilità che ne scaturiranno possono andare ben oltre l’ordinario modello. Abbiamo di fronte un tempo che richiederà di ripensare gli spazi della decisione, gli spazi dell’educazione e della produzione industriale e agricola, che provvedano a cambiare i materiali e i modi per produrre energia, nonché quelli per smaltire i rifiuti. Abbiamo dinnanzi a noi più di quanto abbiamo mai osato immaginare. Pubblico e privato, se nuovamente uniti, possono trovare la traiettoria e la forza per decidere di instaurare un modello e un piano comune che riesca a governare e usare pienamente ciò che stiamo diventando, senza renderlo asettico, diseguale, securitario.
È il momento di agire, afferrare Kairòs, il tempo dell’occasione che avanza.

Dario Nepoti

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Dario Nepoti

Dario Nepoti

Dario Nepoti è fondatore a Palermo della Scuola Politica Gibel. A Milano ha co-fondato Threes Production, società che produce il festival di musica Terraforma e co-produce alcuni artisti emergenti come i Joe Victor. Ha lavorato a varie campagne elettorali, tra…

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