Dall’overtourism all’undertourism: un asset da riformare
Fase 3 significa non si torna indietro. Tutto riapre (più o meno). Pian piano riconquistiamo i nostri spazi, a fatica riprendiamo il fiato, il ritmo. Riparte la voglia di viaggiare e aprono anche i confini... Ma aprire frontiere e città riporta all’attenzione un tema mai “sopito”, anche se accantonato dagli eventi dei mesi scorsi: come ridisegnare le nostre città?
Sospeso (per ora) l’overtourism, quanto è conveniente riaprire le nostre destinazioni esattamente come le avevamo lasciate anziché sfruttare l’opportunità concreta di ripensarle? Perché quelle stesse città schiacciate dal turismo, di cui tanto si è discusso, oggi pare vogliano correre verso una ripresa ricalcando ciò che è stato? Perché invece non provare a ridisegnarne interpretazioni di accoglienza e vivibilità?
A Venezia, ad esempio, l’acqua alta di novembre e la pandemia da Coronavirus hanno sconvolto il fragile equilibrio di una città che può (potrebbe) riscattarsi solo con un piano strategico che intervenga a ridefinire un intero modello gestionale urbano sulla carta ricco di potenzialità, ma che, se piegato a logiche contingenti miopi, sostanzialmente di sfruttamento economico, rischia di perdere il proprio slancio (come sta accadendo, nell’immobilismo istituzionale generale). L’uso edonistico del patrimonio culturale, a soli fini turistici ad esempio, non funziona più: va riformata la strategia che sta a monte per mettere a valore ciò che sta a valle. Tanto più se il “successo” o meno di questo tipo di operazioni passa solo dalla conta totale di ingressi e incassi (con numeri e statistiche non “raffinate” e spesso derivanti dall’overtourism). I luoghi della cultura sono innanzitutto infrastrutture culturali di prossimità volte ad accrescere il tessuto e l’identità di un territorio e che da quel territorio traggono non solo il loro sostegno ma anche la loro stessa ragion d’essere. Intendendole altrimenti, ovvero non come parte attiva del tessuto cittadino e sociale, ma come mere attrazioni turistiche, il rischio è creare bellissimi non-luoghi, sbilanciandone l’intera offerta di servizi e piegando l’intera struttura organizzativa verso la sola “gestione” dei flussi di cassa vincolandoli alla sola e “volatile” bigliettazione, prima ancora che verso una più stabile e sostenibile accessibilità. Perché se consideriamo che il turismo muove il 12/14% del PIL nazionale, e che l’80% del turismo è turismo culturale (quindi che usufruisce di servizi culturali rilasciati dai nostri musei, ma anche teatri, ad esempio), capiamo come arte e cultura muovano una immensa quantità di capitali e filiere intrecciate, come ad esempio con le imprese ITC che investono in valorizzazione culturale. Senza contare l’impatto sulla crescita personale e sulla qualità della vita, che a loro volta attivano sistemi economici che attraggono investimenti e capitali. Le principali capitali economiche d’Europa sono quelle città che hanno anche la più alta incidenza culturale (musei, teatri, biblioteche, università). Non investire in cultura, perdere questa occasione significa scientemente rinunciare a enormi quote di mercato per la crescita soprattutto locale; nella stessa maniera riproporre il mero sfruttamento culturale della città, secondo una prospettiva superficiale di ripristinare dinamiche, modalità e volumi turistici come nella pre emergenza (e se ce la si fa pure aumentarli) è ancor più sciocco e dannoso. E questo sia a livello locale che nazionale, con un piano di rilancio che lascia intendere che la crescente volontà di ritorno alla normalità attraverso un effimero rilancio potrebbe prevalere su una più strutturata e complessa riforma.
“Occorre massima cautela nei confronti di un obiettivo eccessivamente semplificato di “riportare il turismo” senza porre il giusto equilibrio sull’offrire sostenibilità e vivibilità tanto alla cittadinanza stabile quanto a quella ‘temporanea’”.
Ecco allora la prossima sfida cui dobbiamo porre attenzione. Una sfida “a tempo”, non facile, certo, tanto per Venezia quanto per il resto del Paese che torna ad affacciarsi al mondo. Una sfida cui non possiamo sottrarci semplicemente riproponendo vecchi schemi e le medesime dinamiche del pre covid, ora serve padroneggiare il cambiamento facendolo diventare un valore aggiunto in tutti i campi, anche quello turistico e culturale, al di là di proclami e buone intenzioni, usando questo tempo “sospeso” per creare nuovi interessi, nuove tratte, nuove destinazioni, nuove strategie; riducendo gli impatti su un’area singola (ad esempio quella veneziana insulare) e accrescendo le occasioni di conoscenza secondo altre ottiche. Fare altrimenti, voler ristabilire rapidamente (a tutti i costi) il vuoto monetario di un settore, quello prettamente ricettivo, inquadrandolo attraverso finalità “fini a se stesse”, che si rivolgono meramente all’aspetto “di massa”, significherebbe spingere ad azioni frettolose e scomposte, che potrebbero portare il sistema urbano a una normalità che poi tanto normalità non era.
Allora che non si spechi l’occasione, che non si rinunci pigramente a ingegnarsi, crogiolandoci in ciò che è stato, lasciando cadere questo momento sospeso, questa congiunzione tra crisi e opportunità che più di ogni altra ci offre l’occasione di sperimentare, di diventare laboratorio attivo per riformulare (se non addirittura formulare ex novo) la complessità delle nostre strategie attivando una maggior capacità progettuale congiunta e condivisa; e soprattutto di farlo non solo per superare rapidamente l’emergenza, ma anche per ridisegnare l’idea stessa di città che vogliamo iniziare a costruire oggi per i decenni a venire. E ciò vale per Venezia come per l’intero Paese: un Paese frutto di stratificazioni e azioni culturali svolte in modo sostanzialmente dialettico tra uomo, cultura e natura, non dimentichiamolo. Perché nessuno vuole una Italia senza turismo, non sarebbe giusto né sensato nasconderne il valore (culturale in primis) al mondo, ma neanche necessariamente si deve tornare a fare i conti con gli eccessi di prima, anzi.
UN TURISMO CONSAPEVOLE
Oggi più che mai non serve avere fretta di soluzioni “magiche e immediate”, occorre pensare a cosa vogliamo che siano le nostre città domani, e cosa vogliamo significhino per noi e per chi lo visita, al di là degli interessi più miopi. Si lavori su questo allora: creare una consapevolezza basata su un principio di sana appartenenza e responsabilità dei luoghi, da trasmettere anche ai futuri visitatori. Occorre riaffermare una nuova cultura della cultura e della gestione dell’accessibilità affinché si innesti una più ampia riforma economica del turismo culturale, per iniziare oggi una revisione dei flussi che nasca dall’accoglienza attiva, non dall’intercettazione passiva; che nasca dalle narrazioni, dalle voci dei territori, per facilitare la conservazione e la diffusione delle singolarità dei luoghi e delle diversità territoriali in generale; che esprima i bisogni e valori essenziali di chi di quel territorio ne è rappresentanza e testimonianza viva, per rafforzare il sentimento di appartenenza e di radicamento; che curi i soggetti più sensibili e vulnerabili, con particolare riferimento ai bambini (che erediteranno ciò che noi lasceremo) per ri-costruire le relazioni tradizionalmente esistenti tra società e territorio.
Ovviamente tante sono le variabili, conosciute e sconosciute, ma proprio per questo occorre massima cautela nei confronti di un obiettivo eccessivamente semplificato di “riportare il turismo” senza porre il giusto equilibrio sull’offrire sostenibilità e vivibilità tanto alla cittadinanza stabile quanto a quella “temporanea”. Insomma, ciò che va compreso (e va compreso in fretta) è che, imparando da questa crisi, possiamo darci nuove risposte, adattarci e integrarci in modo efficace immaginando il mondo che sarà. Oggi abbiamo questa occasione (l’ennesima), sta a noi saperla cogliere.
‒ Massimiliano Zane
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