Da asilo a museo. Storia del Museo Macro di Roma
Ludovico Pratesi ripercorre le vicende del Macro di Roma, la cui direzione è da poco affidata a Luca Lo Pinto, che ha impresso una svolta importante a un museo altrettanto fondamentale per la città capitolina e non solo.
Da asilo aperto agli artisti “senza casa” a raffinato centro di ricerca per esperienze artistiche poco conosciute ma di indubbio interesse. In un Paese che ha sempre fatto difficoltà a conferire all’arte contemporanea un ruolo istituzionale socialmente riconosciuto e all’artista vivente uno status di intellettuale e non solo di freak marginale, il recente destino del Macro meriterebbe una storia a sé, con due modelli di direzione artistica promossi dalla giunta Raggi diametralmente opposti. Del resto, il museo di via Nizza, duplicato nei due padiglioni a Testaccio, ha sempre avuto una vita schizofrenica e mai definita: negli Anni Novanta gli spazi di archeologia industriale dell’ex birreria Peroni vengono destinati a sede della Galleria Comunale d’Arte Moderna poi ribattezzata Macro dal 2001, seguito dall’operazione di ampliamento firmata da Odile Decq, che ha conferito un allure internazionale al museo che divise il momento di gloria internazionale nel 2010 con il Maxxi di Zaha Hadid.
I DIRETTORI DEL MACRO DI ROMA
Percorsi tortuosi e spesso contraddittori anche per i direttori, ognuno con un taglio curatoriale a sé stante, quasi a non voler garantire di proposito una continuità di intenti. Passati trent’anni sembra logico affermare che il Macro sia stato percepito dall’amministrazione capitolina come un corpo estraneo, affiancato per anni agli altri musei comunali, dei quali non condivideva però né la storia né gli intenti. Con effetti singolari anche per il pubblico, che non sa mai cosa trovare nelle sale di via Nizza, e quindi non riesce ad affezionarsi a un luogo che cambia connotati quasi ogni anno. Così dopo partenze e soste, aperture e chiusure, nel 2018 arriva la svolta, decisa dal vicesindaco Luca Bergamo: il distacco dalla Sovrintendenza capitolina e l’accorpamento all’azienda speciale Palaexpo, sotto il segno del progetto Macro Asilo, curato da Giorgio de Finis, che spalanca le porte del museo di via Nizza ad artisti di ogni ordine e grado (la terminologia scolastica non è casuale) in un progetto apertamente in opposizione al sistema dell’arte ufficiale. All’inizio del 2020 ennesimo cambio di rotta. Il Macro non è più Asilo ma Museo dell’immaginazione preventiva, sotto la direzione di Luca Lo Pinto: non più anarchico e fuori dal sistema bensì in linea con le istanze curatoriali internazionali più cool del momento.
LA SVOLTA DI LUCA LO PINTO
Uno spazio da sfogliare come una rivista e da vivere con una dose di attenzione particolare, secondo il noto ed efficace taglio multidisciplinare che ha caratterizzato il lavoro di Lo Pinto, capace di veicolare con consapevole leggerezza contenuti impegnativi. Molti gli stimoli presenti nella mostra di apertura, Editoriale, allestita con sapienza e precisione in tutti gli spazi del museo: ben risolta la Sala Enel, con l’alternanza di opere di grandi e piccole dimensioni, giocate sulla direttrice visiva delle due videoproiezioni che uniscono in una sola linea semantica la Roma degli Anni Settanta, colta dall’obiettivo di Marcello Salustri, e la California dello stesso periodo, immortalata dalla suora underground Corita Kent.
Uno spazio da sfogliare come una rivista e da vivere con una dose di attenzione particolare.
Impeccabili nel loro rigore le sale dell’ex Birra Peroni, dedicate ad artisti storici come Emilio Prini, mentre la sorpresa più riuscita e originale è la sala al primo piano dell’ampliamento di Odile Decq, con le pareti rivestite di una sequenza fotografica di notevole impatto visivo realizzata da Giovanna Silva sulla collezione permanente del Macro, custodita nella parte sotterranea del museo, in dialogo con le sonorità underground di Lory D.
IL SUONO NELLA MOSTRA DI LO PINTO
E il carattere esperienziale della direzione Lo Pinto si evince anche da una forte presenza del suono, non più marginale ma protagonista di un mix riuscito con l’immagine e la parola scritta: D’IO (1971) è la risata di Gino De Dominicis che accoglie i visitatori all’ingresso, la musica di Luigi Nono accompagna le opere di Gastone Novelli e i suoni di una Parigi degli Anni Settanta costituiscono la colonna sonora del magnifico documentario di Roberto Rossellini sull’inaugurazione del Centre Pompidou.
Forse la nuova filosofia del Macro può essere riassunta nella frase scritta a spray dall’artista Nora Turato sul muro della sala principale: The World is like a cactus, it’s impossible to sit down. Niente soluzioni facili e arte blockbuster: Il Museo dell’immaginazione preventiva ci suggerisce che l’arte è, prima di tutto, pensiero. E, in questi tempi così incerti, è un messaggio da non sottovalutare: se fosse questa la nuova direzione del Macro, sarebbe un buon segnale per la città.
‒ Ludovico Pratesi
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