Giù gli stereotipi. Una riflessione a partire dal DDL Zan sul politically correct
È difficile strutturare un discorso "sensato" su temi che riguardano identità di genere, identità etnica e tutte le altre dimensioni sensibili. L’opinione di Stefano Monti
C’è un dato culturale che ormai non può più essere lasciato “a macerare” tra i non-detti. Si tratta della “difficoltà” di strutturare un discorso “sensato” su temi che riguardino, in qualche modo: identità di genere, identità etnica e tutte le altre dimensioni “sensibili” che ogni volta che vengono nominate sollevano uno sciame di proteste e di posizioni dicotomiche. Qui non si vuole entrare nelle singole questioni, quanto piuttosto affrontare, con quanta più serenità possibile, le modalità attraverso le quali il dibattito viene condotto. Guardando quindi “al dibattito” e non alle singole questioni, ciò che emerge con chiarezza, oggi, ad una persona non particolarmente appassionata alle “bagarre” multimediatiche è che sui temi sensibili si assiste sempre alla scleratizzazione di due opposte fazioni: da un lato coloro che “difendono” a spada tratta alcune questioni e dall’altro coloro che a fronte di tutta questa attenzione giudicano con estrema durezza episodi “di clamore” per una espressione poco felice.
IL TEMA DEL POLITICALLY CORRECT
Superando il fazionismo che rappresenta in qualche modo una caratteristica sociale incontrovertibile degli ultimi anni, un dato rilevante dell’intera questione è che nei dibattiti legati agli argomenti ascrivibili (con una necessaria generalizzazione) alla tematica delle “discriminazioni”, la “forma del dibattito” nella vita “reale”, ha finito con l’adottare le stesse caratteristiche che invece erano, fino a qualche tempo fa, caratteristiche specifiche del dibattito social, soprattutto tenendo in considerazione la rapidità con cui si esprime un giudizio, talvolta lapidario, alle affermazioni di alcune persone, estendendo poi tale giudizio dall’affermazione alla persona. La stessa identica rapidità con cui si mette o si toglie un like. Ma con conseguenze ben più importanti. Negli ultimi anni ci sono state molte notizie che hanno suscitato scalpore, ridestando un’attenzione pubblica veemente. Professori licenziati per affermazioni sessiste o in ogni caso (a torto o ragione) giudicate tali. Opere d’arte “imbrattate” perché sessiste o in ogni caso perché (a torto o ragione) giudicate tali. Convegni boicottati perché tenuti da professori universitari non-friendly o in ogni caso perché (a torto o ragione) giudicati tali. Ci sono due elementi su cui sarebbe corretto riflettere: in primo luogo la correttezza della dinamica che si innesca. Una persona esprime una propria opinione. Condivisibile o meno. Tale opinione rimbalza sui social e in genere si riflette in un sentimento di generale indignazione. Tale indignazione pretende un’azione concreta ed immediata, da parte della persona o da parte dell’organizzazione per la quale lavora. E non sono mancati i casi in cui il risultato di questo processo ha coinciso con la presentazione delle dimissioni. È interessante, al riguardo, il fatto che in alcuni casi ciò accada senza che la persona in questione abbia violato una legge. E che nel frattempo, episodi che nel nostro ordinamento sono formalmente punibili con la legge, non sollevano altrettante polemiche, e non danno pertanto luogo ad altrettante conseguenze. La portata del fenomeno è tale che, nel recente dibattito parlamentare relativo al cosiddetto DdL Zan, la Commissione per gli Affari Costituzionali si era espressa affinché la norma in questione chiarisse che la libera espressione delle idee o la manifestazione di convincimenti o di opinioni riconducibili al pluralismo delle idee, nonché le condotte legittime riconducibili alla libertà delle scelte non costituiscono istigazione alla discriminazione a patto che non “istighino all’odio o alla violenza, ossia non presentino un nesso con atti gravi, concreti ed attuali”.
QUALI DISCRIMINAZIONI?
Guardando le dinamiche nel loro complesso, non è esagerato dunque chiedersi se, e quanto, questo meccanismo possa coinvolgere, a breve, non solo la vita professionale delle persone, ma anche e soprattutto la vita professionale di investitori, e società. Questo elemento è estremamente importante: se a causare conseguenze non è più la violazione della legge ma le proteste dell’opinione pubblica, e se tali argomenti possono estendersi al punto da inficiare potenziali collaborazioni e/o investimenti, rischiamo di assistere a fenomeni quantomeno poco auspicabili: da un lato un incremento generalizzato delle condizioni di incertezza, il che equivale ad un incremento del rischio percepito, che in condizioni post-pandemiche è già molto alto per tantissimi settori. D’altro lato, infine, il reiterarsi di queste dinamiche potrebbe condurre ad un “potere aggregato” sempre maggiore, in grado quindi di incidere su elementi di estrema rilevanza. E con la crescita di tale potere, il rischio che qualcuno possa cercare di veicolarlo. Nulla è più deleterio dell’aleatorio. È forse dunque il caso di affrontare il discorso delle “discriminazioni” con adeguati strumenti giuridici, atti a circoscrivere non solo ciò che sia o meno “istigazione alla discriminazione”, ma anche ciò che sia o meno lesione alla “libertà di espressione”. Perché così come qualsiasi altro reato, è necessario stabilire da un lato quando ci sia realmente la fattispecie di reato e dall’altro invece quale sia la possibile pena. In fondo si tratta di uno degli elementi fondamentali dello stato di diritto.
– Stefano Monti
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati