La proposta di Calenda per Roma? Non percorribile. Parla Valentino Nizzo
Il direttore del Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia apprezza il dibattito culturale innescato dalla proposta di un museo unico dedicato all’antichità romana avanzato da Calenda. Ma nutre serie perplessità in merito alle ragioni del progetto.
Come spesso accade, d’estate i temi culturali trovano maggiore spazio e attenzione sui quotidiani nazionali. Un po’ perché la cronaca e la politica sono rallentate dalla pausa estiva, un po’ perché chi lavora ha più tempo di dedicarsi alla lettura rendendo necessario ampliare l’offerta informativa. Gli archeologi, inoltre, sono abituati a scavare in questo periodo e anche per questo si assiste a un più o meno legittimo proliferare di piccole Pompei e Atlantidi in ogni angolo d’Italia, con conseguente grancassa mediatica. Ben venga! Non c’è Paese più del nostro con un passato esuberante e meritevole di essere raccontato in ogni forma possibile.
Il temporale agostano, tuttavia, questa volta è arrivato dalla campagna elettorale per le amministrative romane e da una proposta a dir poco dirompente avanzata come un fulmine a ciel sereno dal candidato Carlo Calenda, prima attraverso un video esplicativo e poi tramite post, tweet e un articolato PowerPoint ricco di grafici e statistiche.
Il risultato, senza dubbio positivo e – forse – anche inedito per la nostra Capitale, è stato quello di contribuire ad avviare un dibattito tra politici ed esperti del settore su un tema che dovrebbe essere particolarmente caro a tutti i romani, non soltanto quelli direttamente coinvolti nella vita culturale cittadina, ma tutti quelli che, in un modo o nell’altro, traggono benefici economici diretti o indiretti dalla straordinaria attrattività che per secoli e millenni Roma ha saputo esercitare su conquistatori, pellegrini, viaggiatori e turisti.
Ho già avuto modo di esprimere sul mio profilo Facebook alcune considerazioni in merito alla proposta di Calenda di istituire nella piazza del Campidoglio un Museo Unico Romano, un #MURO, come ho suggerito provocatoriamente di “acronimizzarlo”, nel quale raccontare la grandezza di Roma antica attraverso la fusione delle principali raccolte statali con quelle capitoline, riallestite in modo più attrattivo anche all’interno del palazzo Senatorio, liberato per l’occasione dall’ingombro di burocrazie e politica.
I BENEFICI DEL DIBATTITO CULTURALE
Molti, compreso il sottoscritto, hanno discusso e criticato la proposta in modo più o meno pacato o polemico. Tra gli addetti ai lavori è stato unanime il coro dei dissensi in particolare in merito alla proposta di ‘smontare’ le raccolte capitoline perché, a detta di Calenda, poco attrattive (in termini di bigliettazione e visitatori) e poco comprensibili sul piano della comunicazione storica e museografica. Come spesso accade in questi casi, la polemica si è purtroppo tradotta in una sterile contrapposizione tra ‘passatisti’ e ‘innovatori’, senza alcuna possibilità di conciliazione e con un irrispettoso quanto inutile inasprimento dei toni e arroccamento nelle rispettive torri di avorio (cultura vs politica).
Nel dibattito che è seguito alle prime anticipazioni, Calenda ha fatto l’esempio del busto di Cicerone, a suo dire poco valorizzato in una sala carica di innumerevoli ritratti e, anche per questo, non adeguatamente suggestiva e attraente per un visitatore comune.
Mi sono permesso di esprimere il mio pensiero con un post anche su questo punto per evidenziare il significato profondo, il valore storico e artistico e le ragioni che rendono importante la “sala dei filosofi” (così si chiama dalla sua istituzione nel 1734, data di apertura al pubblico del Museo).
Ma il motivo per cui mi è stato chiesto di intervenire in questa sede non è questo, né trovo opportuno aggiungere ulteriori elementi tecnici a una discussione che, fortunatamente, può aver ben altri scopi e, si spera, esiti.
Le proposte di Calenda devono consentire ai tecnici di riflettere non tanto nel merito della visione politica, quanto del sentire di un cittadino comune che è portato per formazione ad applicare alle tematiche culturali una prospettiva di stampo economico e imprenditoriale.
In questo senso vanno prese le slide su metri quadrati espositivi e numero di visitatori e in questa direzione va la proposta di razionalizzare e ottimizzare i flussi turistici approfittando della centralità e unicità del Campidoglio.
Vista così l’idea di Calenda non appare del tutto inopportuna e ha accolto anche diversi consensi, soprattutto tra i cittadini scontenti del modo in cui è gestito e raccontato il patrimonio archeologico, storico e artistico di quella meraviglia unica che è Roma.
La proposta, per quanto criticabile, ha dunque il merito di aver spostato la campagna elettorale su temi solitamente estranei al dibattito politico e questo è un aspetto senza dubbio positivo, sperando che il dibattito si protragga costruttivamente fino alle elezioni e non si esaurisca nello spazio di un temporale estivo una volta che sarà scemata l’attenzione giornalistica.
“Fare cultura significa solleticare la curiosità e ampliare la voglia di conoscenza in un percorso che non può accontentarsi di soddisfare tutto in un’unica tappa”.
Da tecnico che ha l’onore di dirigere uno dei principali musei archeologici della Capitale non posso tuttavia esimermi dall’entrare nel merito di alcuni aspetti, spero a beneficio dei lettori e dei romani. La proposta del MURO, per quanto apparentemente innovativa, ha il suo illustre precedente nell’iniziativa politica e culturale di Felice Barnabei che, nel 1889, fu in grado di dar vita e di concretizzare nei decenni seguenti l’ambiziosissimo progetto del ‘Museo Nazionale delle antichità di Roma’. Lo scopo era quello di dotare la Capitale, finalmente unita alla Nazione, di una realtà in grado di competere con quelle Capitoline e Vaticane.
Musei come il Louvre, l’Hermitage o il British non erano ancora considerati un modello in un Paese che aveva dato vita alla concezione stessa del Museo come oggi viene inteso.
Barnabei voleva andare oltre. Rendere Roma un punto di riferimento museografico in grado di superare l’impostazione collezionistica delle raccolte storiche del comune e del papato. Un museo in grado di raccontare la storia più remota di una grande città e quella dei popoli preromani che avevano contribuito a renderla tale. Tutto questo attingendo da nuovi scavi e da nuove indagini fondate sui presupposti scientifici della nascente archeologia. Senza tuttavia nascondere un certo spirito di sfida e competizione con le istituzioni capitoline e vaticane che cercavano al contempo di aggiornarsi grazie a grandi archeologi del calibro di Rodolfo Lanciani.
Una competizione culturale estremamente istruttiva in cui l’esperto Barnabei seppe portare dalla sua parte regine, re e ministri pro tempore. Fu così possibile recuperare complessi architettonici straordinari che giacevano quasi dimenticati, utilizzati in modo più o meno rispettoso del loro passato per funzioni paramilitari. Il chiostro michelangiolesco delle terme di Diocleziano e la villa di Papa Giulio furono le prime sedi di un progetto che in origine doveva convogliare tutto sulle terme. Ma Barnabei aveva un amore particolare per Villa Giulia e seppe renderla la casa permanente dell’archeologia suburbana e, quindi, di quella preromana legata in particolare a Falisci, Etruschi, Umbri e Latini. Alcuni dei popoli che avevano reso grande Roma.
Il museo delle Terme avrebbe invece dovuto raccontare l’archeologia della Capitale entro le mura e, dunque, la romanità, con i suoi miti, le sue ambizioni e i suoi fallimenti. Nessuno si era allora sognato di toccare i Musei Capitolini o le raccolte comunali e vaticane, che continuarono la loro storia in modo che non è certo facile ai più comprendere, soprattutto se si guarda alle divisioni fisiche e alle barriere che segnano ancora oggi gli spazi dell’area archeologica centrale, dal Foro Romano ai Fori Imperiali, dal Celio al Circo Massimo e, ovviamente, al Campidoglio.
PERCHÉ LA PROPOSTA DI CALENDA NON FUNZIONA
Questo è senza dubbio un ostacolo da superare per la comprensione del nostro patrimonio. E ben vengano le proposte che mirano ad abbattere barriere burocratiche invisibili e oggi non più comprensibili tra stato e comune. Come peraltro si è provato a fare da alcuni anni, sin dall’epoca della giunta Marino, grazie anche alle proposte formulate nel 2015 da una commissione di esperti incaricata di tornare a riflettere su quel sogno in parte realizzato alla fine dell’Ottocento dal ministro Guido Baccelli (con la stesura nel 1887 di un “Piano per la sistemazione della zona monumentale riservata di Roma”) di una grande area archeologica centrale, più volte ripreso nel corso del Novecento, da ultimo con le battaglie portate avanti da La Regina e Cederna.
Ma le raccolte museali, per quanto mobili, andrebbero toccate con cognizione di causa.
Dopo Barnabei la loro storia prosegue infatti in una direzione rispettosa dei criteri che la comunità scientifica si è data. In sedi separate semplicemente perché il patrimonio è così enorme da non poter essere musealizzato in un unico luogo. E non potendo lasciar chiusi capolavori nei depositi, si è proceduto creando diverse realtà, ognuna con una sua logica peculiare e virtuosa, anche se sicuramente perfettibile, come mostrano le quattro sedi del Museo Nazionale Romano, il cui racconto deve necessariamente integrarsi anche con quello del Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia e con quello delle altre istituzioni museali statali e comunali nate successivamente.
Il ‘Museo Unico Romano’ non è la risposta adatta per Roma e, più in generale, per il nostro modello culturale. Almeno non nei termini in cui è stata presentata.
Così come andando al Louvre non si capisce meglio il mondo o l’arte di Leonardo o quella degli Etruschi. Si va al Louvre perché mette insieme capolavori da cinque continenti e nei quali è facile, in un pianeta ormai globalizzato, identificarsi più di quanto sia facile farlo con gli Etruschi, di cui in pochi anche nel nostro Paese conoscono l’esistenza.
Al Louvre si trova tutto come nel più attrezzato centro commerciale. Ma dubito che si capisca meglio ciò che si visita al suo interno solo perché sono più le persone a visitarlo.
Giudicare la qualità di un museo dal numero di visitatori sarebbe come giudicare la bravura di un politico dall’entità dei suoi follower. Non escludo che, in un caso come nell’altro, le derive potrebbero essere molto pericolose, facendo apparire inutile o di minor valore chi è meno seguito per logiche che possono essere valide nel mercato pubblicitario per stabilire il compenso di un influencer ma che poco senso hanno in un contesto educativo e culturale, nel quale è opportuno prevalgano ben altri parametri.
“Solo abbracciando l’idea di una cultura policentrica, plurale e diffusa se ne persegue il senso e il significato”.
Una città come Roma, che vanta già diversi attrattori turistici plurimilionari (Colosseo, Vaticani, Pantheon, Castel Sant’Angelo), difficilmente può permettersene e sostenerne altri, semplicemente perché flussi simili sono tali solo in virtù di una fruizione prevalentemente turistica e ben pochi turisti, in un mondo ‘fast’ e globalizzato come il nostro, possono soggiornare in una città come la nostra per più giorni consecutivi, quanti ne occorrerebbero per godere anche solo di una frazione infinitesimale dell’offerta culturale che essa contiene. Inoltre, sfido chiunque nel medesimo giorno a visitare Fori, Colosseo, Campidoglio, Pantheon e Vaticano. È chiaro che anche il tema della logistica come è affrontato da Calenda è poco pertinente e non migliorerebbe di molto le fatiche che ogni turista davvero interessato alla Roma antica è costretto ad affrontare.
Fare cultura significa solleticare la curiosità e ampliare la voglia di conoscenza in un percorso che non può accontentarsi di soddisfare tutto in un’unica tappa.
Non sono i numeri dei visitatori a determinare l’importanza dei musei. Serve una politica culturale che integri l’offerta e invogli i milioni di turisti che visitano la Capitale a differenziare le proprie scelte rispetto al solito elenco dei principali attrattori. Questo significa puntare a una maggiore qualità del turismo e a una sua permanenza più prolungata, con effetti benefici su tutta la filiera che ruota intorno all’accoglienza turistica e non solo sulle poche e rapide mete prescelte dagli operatori per ottenere il maggior guadagno nel tempo più rapido e con il minimo sforzo. Basta parlare con qualunque guida o tour operator per capirlo. Il Covid potrebbe forse darci modo di ripensare le dinamiche turistiche e di trovare una strada che sia davvero vantaggiosa per tutti.
Un museo unico non ha motivo di essere, non solo per motivi storici e burocratici, ma semplicemente perché non potrebbe mai raccontare tutte le storie che ogni angolo della nostra città e del nostro Paese racchiude. Ma nemmeno si può creare un museo in ogni angolo.
Cerchiamo di migliorare per quanto possibile quelli esistenti. Renderli più attraenti, inclusivi, accessibili e comunicativi, come giustamente evidenziato da Calenda. Tenerli aperti e dotarli del personale necessario e adeguato per farlo. Sollecitare tra loro dialoghi e relazioni.
A Villa Giulia abbiamo condotto molte sperimentazioni in tal senso, con importanti innovazioni, a partire dall’introduzione del primo abbonamento per un singolo museo nel 2017, poi imitato da molti, e, da ultimo, con il lancio di una convenzione aperta – Tular Rasnal Etruschi senza confini ‒ che dà diritto a sconti per i residenti nei comuni che la siglano, tra i quali spero di poter vantare prima o poi anche Roma insieme ai numerosi altri che hanno già da temo aderito.
PROPOSTE PER IL FUTURO
Sarebbe inoltre fondamentale cominciare ad assumere figure interne con professionalità trasversali e non demandare il tutto a bandi e gare esterne, con le lentezze e i rischi che possono comportare. Oltre agli irrinunciabili ‘custodi’ e tecnici, servono più comunicatori, informatici, scenografi, esperti di didattica, illuminazione, allestimenti, programmatori o anche, semplicemente, geometri e amministrativi validi per far funzionare bene e meglio le nostre istituzioni culturali. Un patrimonio ancora più importante di quello artistico e archeologico è costituito dai professionisti che operano o potrebbero operare nelle nostre istituzioni e che lottano quotidianamente tra mille difficoltà organizzative, gestionali e strumentali. Con concorsi e l’immissione di nuove professionalità migliorerebbe senza dubbio anche l’esperienza di fruizione. Occorrono non solo idee ma anche teste per realizzarle. Non dico solo fondi, perché a volte le idee migliori possono essere realizzate anche a costo zero.
Non sarebbe troppo difficile se il punto di partenza fosse questo.
Sicuramente è una idea condivisibile delocalizzare la politica da luoghi che meriterebbero una fruizione pubblica come il palazzo Senatorio o l’ex Pantanella a via dei Cerchi. Certamente una loro destinazione a sede museale è la soluzione ideale. L’idea di un Museo della città di Roma recuperata dal candidato Gualtieri a partire da proposte che erano già da diversi decenni nel piatto è senza dubbio ai miei occhi più stimolante di quella di un museo unico votato alla romanità. Una meraviglia in tal senso è costituita già dal meraviglioso Museo della Civiltà Romana dell’EUR, che è scandaloso che rimanga dopo decenni inesorabilmente chiuso e dimenticato. Lo dico con cognizione di causa, essendo rimasto da bambino letteralmente stregato dai suoi meravigliosi plastici e avendo avuto il privilegio, appena quattordicenne, di vedere il grande plastico di Gismondi dalle impalcature di restauro, a pochi centimetri di distanza dall’originale.
UN MUSEO DELLA CITTÀ
Il comune dispone di materiali inestimabili presso l’antiquarium comunale del Celio, un edificio concepito alla fine dell’Ottocento su impulso di Lanciani e poi inaugurato negli Anni Trenta per essere prontamente richiuso a causa dei danni provocati alle fondamenta dal passaggio della Metro B. Al suo interno e nei depositi capitolini ci sono collezioni inestimabili che potrebbero comporre un magnifico museo della città di Roma, la cui storia dovrebbe tuttavia essere estesa il più possibile indietro e in avanti nel tempo, dalla Roma preistorica popolata da elefanti alla prima Roma latina, dalla grande Roma etrusca dei Tarquini alla Roma contesa tra Goti e Bizantini, dalla Roma papale a quella di Cola di Rienzo, dalla Roma rinascimentale a quella barocca, dalla Roma dei granturisti a quella di Ciceruacchio, Belli e Trilussa, dalla Roma di Nathan e Giolitti a quella fascista, dalla Roma di Sordi e del boom economico a quella della dolce vita e delle borgate di Fellini e Pasolini.
Per raccontare ai romani il non facile rapporto che la città ha avuto con il proprio passato, per descriverne l’habitat e la sua evoluzione nel tempo, per dare un’anima e una onorabilità storica anche alle sue vaste e complesse periferie. Per promuovere una idea di cultura che rifugga dai pericolosi monoliti identitari della romanità e abbracci finalmente una immagine in grado di rendere tutti orgogliosi di un passato che ha senso solo se diventa strumento di dialogo con il presente e di riflessione sul futuro.
I musei della città diffusi ormai in tutto il mondo da Londra a Barcellona, da Parigi a Stoccolma, non hanno la pretesa di competere con i grandi attrattori, ma nascono allo scopo di fornire una immagine comprensibile di quell’habitat che contribuisce, come insegna l’antropologia culturale, a definire il nostro habitus, il nostro modo di essere, di esprimere e rappresentare noi stessi e la realtà che ci circonda.
Un museo della città serve a questo e può diventare un polo di attrazione in grado di agire sulla curiosità di tutti, in particolare i più giovani, per poi incoraggiarli ad approfondire le mille storie nascoste negli altrettanti scrigni di cultura diffusi in ogni dove a Roma e nel resto della Penisola. Solo abbracciando l’idea di una cultura policentrica, plurale e diffusa se ne persegue il senso e il significato. Solo in questo modo si può sperare di incidere davvero sulla società come dovrebbe ambire a fare la politica, promuovendo l’idea che cultura è prima di tutto benessere e inclusione.
Poiché non sempre l’ingresso in un museo equivale a una esperienza positiva alcuni, anche per questo, vedono il passato come una terra straniera. Si può fare moltissimo per migliorarne la percezione se ci si avvicina a esso con rispetto, curiosità e attenzione. Ma va fatto con cognizione di causa e attraverso una seria programmazione. La politica può essere alleata della cultura e non è necessario creare alcuna barriera né tanto meno un MURO. Ma occorre rispetto reciproco e seria volontà di collaborare perseguendo l’interesse collettivo e una visione della storia e del nostro passato più articolata, stratificata e complessa di quello che a prima vista si potrebbe pensare.
‒ Valentino Nizzo
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