Cultura e città. Come dovrà essere la Milano di domani?
Dopo l’approfondimento di Bertram Niessen sulle sfide culturali che Milano deve affrontare, spazio alle opinioni degli operatori culturali che conoscono da vicino la città. Un giro di tavolo sulla Milano di oggi e di domani.
Milano nell’ultimo decennio ha avuto uno sviluppo insperato che su tanti aspetti l’ha posta vicina o addirittura sopra ai migliori standard europei. Restano dei dubbi però sul fronte culturale, visto che la città fa tanto ma potrebbe fare di più, sfruttando ancora meglio il suo essere florida economicamente e dinamica socialmente. In che direzione si dovrebbe andare? In quali settori? In quali zone della città ci sarebbe bisogno di attrattori culturali? Come dovrebbero essere concepiti i nuovi sviluppi immobiliari e i nuovi quartieri? Sono queste le domande che abbiamo rivolto a una serie di operatori attivi in città.
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #62
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UMBERTO ANGELINI ‒ DIRETTORE ARTISTICO TRIENNALE MILANO TEATRO
Scrivo queste righe poche ore dopo aver visitato il nuovo progetto Alcova in zona Inganni per la Design Week ed essere rimasto colpito dalla maestosa e affascinante decadenza del luogo scelto, praticamente sconosciuto alla città. Quanti altri luoghi simili abitano la nostra città e quante zone milanesi sono estranee agli stessi cittadini? E quali possibili intelligenti reinvenzioni come quella di Alcova potrebbero essere possibili e non limitarsi allo spazio, seppur straordinario, della temporaneità?
Credo che oggi Milano debba prima di tutto ripensarsi come città per i giovani sia nello sviluppo immobiliare sia nella produzione culturale anche attraverso l’utilizzo delle ingenti risorse del piano Next Generation EU. Far convivere l’attrattività con l’accoglienza, generare nuovi immaginari, accessibili e inclusivi.
Tutto ciò comporta un importante incremento dell’housing sociale, la creazione diffusa di residenze universitarie, la riconversione delle destinazioni d’uso di molti spazi commerciali inutilizzati in affitti residenziali a canoni calmierati per giovani lavoratrici e lavoratori, in modo da ridisegnare interi quartieri e spostare la spesa dalla rendita alla partecipazione sociale e culturale.
Il soggetto pubblico dovrebbe a sua volta investire sul rischio culturale favorendo la nascita e la sostenibilità di nuove esperienze creative geograficamente diffuse, decentralizzando la produzione culturale in nuovi spazi in aree periferiche e favorendo la cogestione di questi luoghi anche tra istituzioni cittadine e nuove imprese sociali. Un formato ibrido, inedito, che metta insieme l’autorevolezza e la competenza dell’istituzione e l’entusiasmo, la leggerezza e le sensibilità di giovani realtà indipendenti, generando così una circolarità virtuosa di saperi e pratiche. Significa progettare un modello di città policentrica in perenne cambiamento, ove l’attrattore culturale rappresenti non soltanto il mezzo di una operazione di gentrification ma soprattutto una infrastruttura sociale capace di tenere insieme le differenze, le eccellenze e le fragilità.
EMANUELE BRAGA ‒ ARTISTA, RICERCATORE, COREOGRAFO E ATTIVISTA
Il vettore per McKenzie Wark, dark matter per Gregory Scholette, il lavoro gratuito di piattaforma per Tiziana Terranova, la pila per Benjamin Bretton, il necrocapitalismo per Achille Mbembe, il comunismo del capitale per Christian Marazzi: sono solo alcuni dei concetti che per me rendono possibile pensare Milano. Sono anche alcuni dei concetti più dibattuti nei raffinati dibattiti d’arte contemporanea a cui ho assistito e contribuito nelle varie Biennali, Documenta e principali centri di ricerca e istituzioni d’arte.
Perché ho messo assieme tutti questi concetti, simili ma con differenze importanti, come precondizione per poter pensare gli ultimi dieci anni di Milano? Perché credo che questa città sia un caso molto interessante per osservare la transizione post-fordista prima e post-capitalista ora. È questa intersezione fra industria creativa, finanza, mercato immobiliare e razzializzazione del lavoro che la definisce. Milano ha visto morire il vecchio capitalismo fordista, quello delle fabbriche. Solo il vecchio capitalismo rentier, quello dell’investimento immobiliare, è sopravvissuto, ma è accaduto grazie a un’azione di salvataggio da parte del nuovo capitalismo finanziario e informazionale del terziario digitale avanzato in epoca di big data. Questo nuovo tipo di capitalismo ha bisogno di una continua differenziazione: la continua produzione di cose nuove, per poter selezionare contenuti e concentrare risorse, è ciò che caratterizza Milano. Bingo! Moda, design, underground, accademie e università private, classe creativa che diversifica continuamente la produzione di contenuti, valorizza il mercato immobiliare all’interno di una finanziarizzazione sempre più digitalizzata che concentra risorse in pochi monopoli, grazie a un esercito di manovalanza razzializzato e a basso costo, per la maggior parte del tempo in modo gratuito.
A questo punto Milano credo sia a un bivio. Può esasperare questo modello diventando il simbolo del greenwashing, dell’invisibilizzazione dei rapporti di sfruttamento precari, spacciatore di sogni che non saprà realizzare: questo scenario credo che abbia un unico destino per tutti coloro che lo percorreranno nell’Occidente, cioè consegnare la città all’estrema destra. Oppure può cominciare a essere apripista di misure davvero alternative, cioè utilizzare l’informazione e i dati in ottica non autoritaria, volta a investimenti radicali nel welfare e nell’ecologia. Ciò significa, come ho già avuto occasione di esprimere, investimenti pubblici. Smettere di privatizzare per fare cassa e aprire i rubinetti degli investimenti pubblici diretti in case popolari, educazione, sanità e tecnologia. Questo è possibile in modo non autoritario solo a partire dal riconoscimento e dalla collaborazione alla pari con i movimenti sociali. Con tutti quei laboratori che si stanno attivando per produrre tessuto sociale e che si prendono cura della città.
Milano dovrebbe invertire questa allucinazione per cui il sociale è la compensazione al ribasso dell’investimento finanziario; al contrario, dovrebbe radicare il tema del valore nella cooperazione sociale. Insomma, farla finita con la vulgata neoliberale del “se non ci sono i soldi non possiamo investire in cultura e salute” e cominciare ad affermare che c’è prosperità economica solo se basata su benessere sociale, scuola e salute. Milano dovrebbe spiazzare tutti, invece che pompare greenwashing e pinkwashing usando le differenze queer, gay, l’amore per il verde e le macchine elettriche; dovrebbe promuovere la cooperazione sociale e il riconoscimento dell’attivismo.
Sono consapevole che il movimento di Macao abbia accelerato in città il radicamento di quell’agenda europea culturale incentrata su rigenerazione urbana, spazi interdisciplinari, autogestione dal basso, partecipazione attiva dei pubblici. Dopo Macao sono nate decine di spazi interdisciplinari dal recupero di edifici in abbandono, agricoli e post-industriali. Ma chi fra questi sta facendo la differenza? Nella discussione contemporanea europea credo stia emergendo in modo esplicito che la strategia dell’uso temporaneo è obsoleta. In Germania, Belgio, Francia e Olanda è ormai diventata la questione: gli artisti non sono più disposti a valorizzare spazi urbani per poi lasciare il posto ai processi di gentrificazione, vogliono al contrario affermare permanenti istituzioni dei commons. Questo si può attuare solo attraverso la lotta e l’attivismo, ridefinendo il quadro amministrativo sull’utilizzo di spazi pubblici come beni comuni, oppure con azioni di acquisto in azionariato popolare, come sono le co-ownership o le community land trust.
LINDA DI PIETRO ‒ DIRETTRICE DEL PROGRAMMA CULTURALE BASE MILANO
La domanda oggi è: chi si sta occupando di immaginare le istituzioni culturali del futuro? Quanto sono aperte, quali corpi le attraversano? La crescente divaricazione sociale tra inclusi ed esclusi, acuita dalla pandemia, rischia di riflettersi in uno specchio autoreferenziale delle istituzioni culturali, che rimandano a immaginari stereotipati, asfittici, uguali a se stessi. Per rispondere è necessario dare parola alle comunità artistiche che usano l’immaginazione nella produzione del cambiamento, e c’è bisogno di un’apertura a nuove relazioni con spettatori più emancipati (per riprendere una celebre formula di Jacques Rancière), meno avvezzi alle forme classiche della spettacolarizzazione e della fruizione.
In questa direzione a Milano si sono sviluppati una serie di percorsi “alternativi” che oggi leggiamo come la nascita di una nuova infrastruttura di istituzioni culturali di prossimità. Da BASE a Mare culturale urbano, da Terzo Paesaggio a Chiaravalle al Nuovo Armenia, questi centri, ibridi e indipendenti, diffusi su tutto il territorio, hanno dato vita negli ultimi dieci anni a una scena culturale autonoma che ha iniziato a operare fuori dai sistemi artistici tradizionali. Uno sviluppo avvenuto in concomitanza con il sopirsi del ruolo che le istituzioni hanno storicamente avuto nella creazione di uno spazio civico.
Il passo successivo e necessario è la costituzione di una rete di luoghi indipendenti ma connessi, che costruiscono nelle falle dell’esistente, in costante relazione con esso, e de-istituzionalizzano i luoghi deputati alla cultura, portando fuori le pratiche, con l’intento di costruire una molteplicità di quelli che Chantal Mouffe chiamerebbe “spazi di nuovo agonismo”, spazi e pratiche che non dirottano le istituzioni, ma istituiscono diversamente.
Quello che ci insegna l’esperienza di questi spazi è che non basta una sola istituzione, ma che l’emersione di una moltitudine di diverse istituzioni più piccole, aperte, accessibili, fluide ci consente una combinazione di molti e diversi approcci, un ecosistema di istituzioni, o meglio una nuova ecologia istituzionale che riconnetta la Milano dei quartieri contro il rischio dell’iperlocalismo.
MARIANNA D’OVIDIO ‒ DOCENTE ASSOCIATO DI SOCIOLOGIA URBANA ALL’UNIVERSITA DI MILANO-BICOCCA
La traiettoria che Milano ha intrapreso nell’ultimo decennio non è dissimile da quella di tante altre città che hanno seguito una logica di attrazione e sviluppo di settori avanzati (culturali, creativi, ad alta intensità di conoscenza). Milano si è adeguata perfettamente a quei precetti del modello della cosiddetta città creativa, dove cultura e spazio pubblico urbano vengono considerati merce da vendere sul mercato internazionale, passando attraverso processi di immaterializzazione dell’economia, nuovi modelli di consumo e di gentrification urbana. Naturalmente, tutto questo significa anche nuove opportunità di lavoro e di consumo, riqualificazione e rivitalizzazione di quartieri, miglioramento della qualità della vita di molti dei suoi abitanti, ma subordina la città, e in particolare la sua produzione culturale, al mercato: non c’è cultura se non si può vendere, non esiste quartiere se non compare sulla Lonely Planet.
Nonostante ciò, credo che Milano abbia anche molte risorse per contrastare questo processo di mercificazione estrema della cultura e lo vedo nella nascita di molti nuovi centri culturali, negli orti di quartiere, nel cinema nelle piazze e così via. Sono tutti esempi in cui la comunità si “riprende” la cultura e lo spazio urbano, sono momenti di produzione e di fruizione di cultura che, indipendentemente dal mercato, costruiscono senso, condivisione, creano coesione e capitale sociale.
Il modello che Milano sta seguendo la sta portando velocemente verso una polarizzazione sociale e culturale estremamente grave, che necessita una strategia di contrasto coraggiosa e diretta (politiche sociali e abitative, del lavoro, della coesione ecc.). Su un altro fronte, tuttavia, la politica milanese, soprattutto quella dei primi anni del nuovo millennio, si è posta anche come politica abilitante, di riconoscimento e di sostegno alle pratiche di coesione sociale e di comunità: oggi la politica deve tornare a lavorare su questo fronte, così che le comunità possano essere protagoniste del cambiamento culturale, e i processi di coesione sociale più forti di quelli di mercificazione.
MARCO EDOARDO MINOJA ‒ COMUNE DI MILANO – DIRETTORE CULTURA
A oltre un anno e mezzo dall’inizio della pandemia, la Milano della cultura è una città in salute?
È una giusta domanda, a fronte dello stato di salute, e quasi di ebrezza, che la città ha conosciuto negli anni immediatamente precedenti. Era il 2018 quando l’analisi sulla qualità della vita condotta dal Sole 24 Ore su alcuni indicatori, tra cui quelli relativi a Cultura e tempo libero, decretò che Milano era la città al primo posto in classifica. Sempre nel 2018 l’osservatorio operato da Mastercard sull’attrattività turistica indicava Milano come prima città italiana e quinta città europea, nonché unica città italiana nella top 20 mondiale.
Nel 2019 Milano si aggiudica il Best City Award attribuito dalla rivista Wallpaper per premiare la città che più si è distinta nel panorama del design su base globale; e ancora, ai Global Fine Art Awards trionfano istituzioni milanesi come HangarBicocca e Fondazione Prada rispettivamente nelle categorie delle esposizioni individuali, con la mostra sugli Ambienti di Lucio Fontana, e collettive, con la mostra sull’arte italiana tra le due guerre Post Zang Tumb Tuuum. Art Life Politics: Italia 1918-1943.
The Culturale and Creative Cities Monitor, monitoraggio rilasciato dalla Commissione Europea, nel 2019 ha posizionato Milano tra le prime cinque città europee per vivacità e accessibilità dell’offerta culturale (insieme a Parigi, Londra, Monaco e Berlino) e il report Io sono Cultura della Fondazione Symbola, sempre nel 2019, ha classificato Milano come la prima città italiana per valore aggiunto e occupazione nel campo dell’industria culturale e creativa.
Bastano i riconoscimenti esterni a decretare lo stato di salute? E soprattutto, che effetti ha avuto un anno e mezzo di pandemia su tutto questo? È difficile oggi valutare l’impatto strutturale, molto più praticabile è rendere conto degli interventi contingenti operati a sostegno della salute del comparto.
Nel 2020, a fronte del blocco della relazione tra pubblico e attività culturali, l’Amministrazione destina 2 milioni di euro di risorse extrabilancio, quindi in aggiunta ai normali investimenti, per interventi a supporto delle perdite del comparto, raggiungendo oltre 360 soggetti operanti nell’ambito della cultura e dello spettacolo, una rete straordinaria di operatori dal macro al micro che rivelano la vitalità del tessuto culturale cittadino.
Nel medesimo periodo, la Direzione Cultura completa un nuovo piano per l’offerta museale della città di Milano, individuando una nuova strategia di organizzazione per distretti territoriali, che mette al centro dell’azione culturale la relazione di partecipazione dei territori e delle comunità quale fattore costitutivo della stessa offerta culturale; una strategia che orienta i nuovi distretti museali cittadini a farsi promotori di relazione e aggregatori su una base di prossimità.
Su questa base strategica si innestano gli interventi strutturali e i progetti connessi anche alle risorse straordinarie del PNRR; questo significa, nel prossimo quinquennio, nuovi poli culturali e rafforzamento di quelli esistenti: dal Museo Nazionale della Resistenza ai bastioni di Porta Volta al raddoppio del Museo del Novecento; dalla nuova BEIC prevista allo scalo di Porta Vittoria al nuovissimo progetto del Museo nazionale di Arte digitale che rivitalizzerà gli straordinari spazi dell’ex Albergo Diurno. E ancora, la nuova Cittadella del Teatro alla Scala in progettazione al quartiere Rubattino e conseguentemente il complessivo ripensamento delle funzioni culturali nello Spazio Ex Ansaldo, destinato a rafforzare il suo ruolo di incubatore per le arti performative e per le ICC.
Massicci investimenti in interventi strutturali, che rappresentano tuttavia solo la punta evidente di un iceberg di relazioni e reti a cui la città ha lavorato in questi anni, in un dialogo costante con gli operatori e con il territorio cittadino.
www.comune.milano.it/aree-tematiche/cultura
ANDREA PERINI ‒ CO-FONDATORE TERZO PAESAGGIO
Milano è un laboratorio di produzione culturale, dove pubblica amministrazione e privati sperimentano, da sempre, nuovi formati organizzativi. Dal Piccolo come primo teatro stabile pubblico del Paese al CRT come primo centro di ricerca, per limitarsi all’ambito performativo.
Oggi mi pare che la direzione da percorrere e intensificare, per far crescere la vitalità culturale della città, stia nell’abilitare le pratiche di rigenerazione urbana a base culturale che si caratterizzano spesso nella riattivazione a fini culturali di beni pubblici dismessi, a opera di soggetti non profit o low profit a governance diffusa, sempre più aperta alla cittadinanza, che sviluppano una pluralità di funzioni ibride, interpretando le vocazioni e i bisogni dei territori, in aree e quartieri di margine della città. Queste pratiche, anche se sono sostenute da politiche pubbliche e da programmi di fondazioni private, per loro natura sono fragili e spesso rischiano l’impaludamento.
Credo che la città di Milano possa assumere queste pratiche per farle evolvere in economia di tipo generativo (opposta a quella estrattiva) attraverso un’alleanza con il capitale e aprendo sempre più l’architettura proprietaria delle iniziative alle comunità (il crowdfunding civico è una proposta interessante in tal senso).
Siamo qui nell’ambito dell’ibridazione e del crossover culturale, habitat per la proliferazione di filiere culturali di prossimità e comunità educanti (da proposte più complesse a quelle più semplici, come la presentazione di un libro nella piazza di un quartiere, occasione per coinvolgere la biblioteca di zona nel dotarsi del volume, il dirigente scolastico nell’ospitare un progetto artistico nella scuola del territorio, suggerito da un’organizzazione culturale attiva nell’area, mentre i commercianti presentano attività tematiche nei loro spazi più diversi…).
Per continuare in questa direzione fertile, appena visibile ora in città, abbiamo tuttavia bisogno di dare impulso alle energie esistenti, con un nuovo Assessorato all’Economia Generativa dotato di portafoglio e pieni poteri, per abilitare il riuso del patrimonio pubblico dismesso, fuori dalla logica della massima valorizzazione, con tempi brevissimi, capace di facilitare il dialogo tra stakeholder, con uno sguardo alle grandi imprese e agli sviluppatori immobiliari, per passare dalla monocultura economica estrattiva, ancora imperante, a un nuovo modo di fare città: più orientato alla vita, alle comunità, ai luoghi.
NICOLA RICCIARDI ‒ DIRETTORE ARTISTICO DI MIART
Milano ha subito un’evidente accelerazione nel corso degli ultimi dieci anni, che l’ha riposizionata sia a livello internazionale che nell’immaginario collettivo. Molte istituzioni culturali hanno beneficiato degli esiti positivi di questa trasformazione – vedi l’incremento della capacità di attrazione o la maggiore disponibilità di risorse sia pubbliche che private.
Non bisogna tuttavia perdere di vista anche gli aspetti negativi che questo cambiamento ha portato. Uno su tutti: la malattia dell’impazienza. Negli ultimi anni si sono inaugurati troppi progetti a Milano senza lasciar loro tempo di crescere e di maturare, di sbagliare e di correggersi. Sembra ci sia sempre la necessità, se non l’urgenza, di portare a battesimo qualcosa di nuovo. Lo stesso si può dire dei quartieri e delle aree residenziali.
Se posso permettermi una digressione personale, quando due anni fa ho deciso di lasciare Milano – città in cui sono nato e cresciuto – e di trasferirmi con mia moglie e mio figlio a Bergamo, un ruolo non marginale lo ha giocato la delusione per la Biblioteca degli Alberi. Dopo il taglio del bosco di Gioia, per anni tutta Isola, il mio quartiere, ha chiesto a gran voce la realizzazione di uno spazio verde alternativo: alla fine è arrivato in risposta un giardino bellissimo, ma lontano anni luce dalle esigenze più ovvie delle famiglie residenti. A Milano si è persa in parte la semplicità e la capacità di comprendere che la qualità della vita passa prima da uno scivolo e quattro altalene che dalle “zone di relax eco-sostenibili e autorinfrescanti”.
Tuttavia, se dietro alla BAM ci sono ovvie ragioni commerciali, quando si parla di cultura bisognerebbe usare più cura e più pazienza. Si dovrebbero investire più risorse nella manutenzione dell’esistente che nella ricerca spasmodica del nuovo. Il rischio è altrimenti passare da un museo all’altro come da un giardino all’altro, lasciando dietro di sé un cimitero di intenzioni che non hanno mai avuto una vera occasione di realizzarsi.
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