Musei-feticcio e i rischi per la cultura
Antonio Natali riflette sui rischi connessi al ricorso alla cultura sempre più come feticcio e non come reale occasione di crescita sociale
Ormai è tutto un altalenare di speranze e delusioni. Quando si pensava d’essere finalmente sulla via d’uscita dalla stretta d’un morbo maligno (grazie ai vaccini e al comportamento civile di molti) l’insorgenza di varianti ha mostrato tutta la precarietà delle convinzioni acquisite, pur scientificamente fondate. Sicché la vita, come in uno slalom, séguita a zigzagare, di continuo aggiustando la rotta, ma con la bussola sempre orientata sulla salute dell’economia, che ai giorni nostri par che sia la vera – per non dir l’unica – preoccupazione. Nessuno ovviamente si sogna di negare l’importanza dell’economia, a patto però ch’essa venga collocata nel novero dei non pochi valori di cui è vitale tornare ad avvertire l’urgenza. E fra questi c’è senza dubbio la cultura; che – fuor d’ogni retorica e a dispetto degli sfottò volgari d’alcuni economisti, più ignoranti che miopi – è davvero un sostentamento indispensabile per l’uomo. Ma la cultura, dico. Non quanto per cultura venga gabellato purtroppo anche a livello governativo; di cui peraltro ci si potrebbe disinteressare se da lì non venissero finanziamenti per le imprese culturali. In quelle sfere ci si rallegra e ci s’autoincensa per le riaperture dei musei (d’arte, in primis). Poi però, a leggere le ragioni di quel compiacimento, ciascuno subito s’avvede che sono giustappunto di natura economica.
OPERE D’ARTE COME FETICCI
Essendo oggi concepiti come macchine per fare soldi, i musei sono valutati per quello che fruttano, non per quello che insegnano; sono perciò utili e degni di premure finanziarie quando sono redditizi: non importa come e perché lo siano; non importa se, invece di promuovere la poesia, alimentano i feticci; non importa se la promozione dei feticci comporta il sacrificio del loro patrimonio rimanente (che magari è fra i più ricchi al mondo, ancorché meno noto); non importa se per promuoverli smettono d’essere istituti capaci di formare coscienze storiche mature e d’educare la sensibilità e il gusto.
“I musei sono valutati per quello che fruttano, non per quello che insegnano”
Importa che rendano; e perché rendano bisogna che spremano i loro feticci; i quali, in sé, sarebbero capi d’opera sublimi, ma, affidati ai meccanismi di un’industria culturale ognora più rozza e ingorda, vengono svuotati della loro poesia e offerti agli autoscatti dei visitatori; che sono tuttavia incolpevoli, perché nessuno (a principiare dalla scuola) più si preoccupa di dotarli di quegli strumenti di conoscenza che consentano un approccio consapevole alle opere.
IMMAGINE VS SOSTANZA
E allora giù per la scesa delle mostre d’artefici grandi, viste e riviste, senza più nemmeno un lumicino di novità. E poi ancóra giù, con l’esposizioni in cui nomi eclatanti del passato (specie del Rinascimento) vengono abbinati ad artisti moderni, nella convinzione che quel confronto di belle stagioni lontane e l’eccellenza dei maestri chiamati a rappresentarle seducano il popolo delle mostre e lo accalchino al botteghino. L’immagine – come ovunque, d’altronde, in questa nostra età scombinata – prevale sulla sostanza, giacché l’immagine, in virtù d’una comunicazione che la tecnologia attuale ha reso istantanea, si diffonde senza il filtro d’una personale preparazione e senza alcun tramite, mentre la sostanza ha tempi lunghi, richiede riflessione e possibilmente confronto e dialogo: requisiti oggi relegati nelle terre bruciate delle perdite di tempo.
‒ Antonio Natali
Articolo pubblicato su Grandi Mostre #25
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