Si può essere al contempo intellettuali e attivisti No Green Pass?
Il mondo della cultura non è esente da retoriche No Pass, No Vax, No Mask. Stimati intellettuali si trovano a legittimare, con le loro analisi in odor di complottismo, le esasperazioni di una minoranza impaurita, a volte incattivita, in cerca di punti di riferimento ideologici
Ci è andata giù duro, Maria Laura Rodotà, diritta e tagliente come una spada, infischiandosene del politically correct e di quel vago timore reverenziale che, di fronte a certi personaggi, è facile percepire: li ha chiamati, semplicemente, “pirla”. E ha chiesto loro, a proposito delle polemiche sui vaccini, di non mettere in mezzo il padre, pace all’anima sua: conviene ed è garanzia di autorevolezza agganciare la propria narrazione al compianto Stefano Rodotà, icona di una sinistra che progressivamente ha fatto dei diritti civili più di una bandiera, quasi la sostanza di contenitori politici un po’ infiacchiti, annacquati, o perlomeno confusi sul piano delle politiche socioeconomiche. Dire qualcosa di sinistra? A invocare Rodotà ci si guadagna e ci si ritrova, da Italia Viva ad Articolo Uno.
GLI INTELLETTUALI NO GREEN PASS
E lo hanno fatto anche loro, Ugo Mattei (giurista e docente di caratura internazionale, icona del Manifesto sui Beni Comuni) Massimo Cacciari (politico e filosofo, illustre professore di Estetica) Giorgio Agamben (autorevole voce del pensiero contemporaneo, docente di Filosofia teoretica) e Carlo Freccero (massmediologo, critico televisivo e accademico): sono i quattro sapio-moschettieri della battaglia No Pass, versione politicamente engagé della più naïf e irrazionale protesta No Vax.
In tema di pandemia il mondo della cultura – incluso quel piccolo sottoinsieme che è il sistema dell’arte – non è rimasto immune alla tendenza negazionista, complottista, o semplicemente demagogica. Non si tratta però di andare contro il vaccino tout court, dicono in tanti, ma di condannare una gestione repressiva e iniqua della pandemia da parte del governo italiano, ovvero il tentativo delle élite di controllarci e toglierci spazi di democrazia. E così si provano a scansare teorie bislacche su mutazioni genetiche, apocalissi prossime venture, stermini programmati su scala globale. Sarebbe un fatto di principio e di determinazione politica: questa l’accusa che rimbalza tra una piazza e un salotto tv, una chat Telegram e una tavolata in pizzeria, un’aula universitaria e un muretto di periferia.
Certe tesi le hanno dunque cavalcate con passione anche i professori di cui sopra, inspiegabilmente schieratisi con i rivoltosi e riunitisi in una sorta di fronte intellettuale della resistenza: l’8 dicembre si confronteranno in un incontro live su Facebook, dedicato al tema della certificazione verde e organizzato da ‘Generazioni future Rodotà’, ovvero, come si legge sul loro sito, “la Società Cooperativa di mutuo soccorso intergenerazionale ad azionariato diffuso ‘Stefano Rodotà’, nata per promuovere la difesa e la valorizzazione dei beni comuni”. Ma cosa c’entra il celebre giurista e accademico, venuto a mancare nel 2017, con il Covid e con la guerra contro il nefasto “siero genico”? La risposta della figlia ha viaggiato rapida su Twitter, spinta da un fiume di reaction e condivisioni: “Mio padre era un meridionale illuminista, si sarebbe stravaccinato, ascoltava cortesemente i pirla ma non li amava”. Fine delle discussioni, delle speculazioni e delle appropriazioni indebite.
Il riferimento al pensiero illuminista suona come una boccata d’ossigeno in mezzo a tanto rumore, agli isterismi diffusi, a un terrorismo subdolo che vorrebbe contagiare – con risultati scarsi, grazie al cielo – una società tutto sommato recettiva. La stragrande maggioranza delle persone ha afferrato il senso: il virus si combatte con l’unico strumento attualmente a disposizione, l’unico in grado di indebolirlo lentamente e di costruire, lungo la via dell’immunizzazione, una barriera collettiva, tale da ostacolarne la mutazione e il fiorire di varianti. Realtà totalmente rovesciata dai guerriglieri NoVax, secondo i quali sarebbero proprio i vaccini a stimolare ceppi sempre più resistenti: niente di più falso, dice la scienza, dinanzi a cui occorrerebbe porsi non con fideistica venerazione, ma con quella serena fiducia e quel naturale approccio razionale che dal secolo dei Lumi in poi dovrebbero essere patrimonio acquisito dell’Occidente.
I COMPLOTTISTI E LA COLPA DEL SISTEMA
La retorica maldestra sulla pericolosità del vaccino, sulle pseudo terapie alternative e sull’attentato all’autodeterminazione dei popoli, è però un fenomeno tanto inspiegabile per una società ben alfabetizzata e globalizzata, quanto incalzante. A fomentare la massa dei sospettosi è da un lato quella controinformazione (o disinformazione) spacciata tra improbabili blog e gruppi social, dall’altro la radicata diffidenza nei confronti di un mainstream – di volta in volta la scienza, la politica, la finanza – visto come incarnazione della nuova minaccia autoritaria. Liberticida, sanguisuga, guerrafondaia, persino genocida. Il tutto semplificato e ridotto a una formuletta, buona per orientarsi nella complessità del reale.
Amplificatore di rabbia sociale repressa, il complottismo – che fa rima con vittimismo – è allora una delle scorie tossiche prodotte dalle incompiute democrazie del consumo, dell’alienazione, della competizione estetizzante e della frustrazione. Rintracciare il nemico sembra essere diventata la maniera migliore per costruire il proprio recinto identitario, il proprio ancoraggio, la propria chance di ribellione. Che siano i migranti, la casta, la politica, i mass media, big pharma o la luciferina lobby pluto-giudaico-massonica, poco cambia. Il meccanismo è sempre lo stesso. Un capro espiatorio da trovare, una linea di demarcazione da tracciare (i buoni e i cattivi, gli oppressi e gli oppressori) e una battaglia da imbastire. Mentre il sacrosanto esercizio del dubbio viene confuso con lo scetticismo ottuso, e l’esercizio critico con l’invettiva populista.
Chi, tra le fila della politica, ha avuto la scaltrezza di cavalcare l’onda per averne consenso, si è portato a casa un bastimento di voti imbevuto del cinismo peggiore.
IL GREEN PASS? COME NELL’URSS E NELLA GERMANIA DI HITLER
Ora, che a questo delirio possano dare una legittimazione “colta” alcuni stimati rappresentanti dell’intellighenzia nazionale, è un pensiero che indigna e rattrista. Com’è possibile che delle menti così brillanti caschino in un simile, pericoloso tranello? Perché cavalcare da prospettive estreme l’urgenza di contestazione, dimenticandosi della realtà e persino dall’evidenza scientifica? Eppure accade. “La discriminazione di una categoria di persone, che diventano automaticamente cittadini di serie B, è di per sé un fatto gravissimo, le cui conseguenze possono essere drammatiche per la vita democratica. Lo si sta affrontando, con il cosiddetto green pass, con inconsapevole leggerezza. Ogni regime dispotico ha sempre operato attraverso pratiche di discriminazione, all’inizio magari contenute e poi dilaganti”: è l’incipit di una lettera firmata da Agamben e Cacciari, pubblicata sul sito dell’Istituto italiano degli studi filosofici di Napoli. Musica per le orecchie di quei No Vax che insultano biecamente le vittime dell’Olocausto, identificandosi con i milioni di ebrei sacrificati dal nazifascismo.
I due prof., invece, preferiscono evocare l’Unione Sovietica, dove l’esibizione della “propiska” (il passaporto interno) era conditio sine qua non per spostarsi entro i confini del Paese, fino ad arrivare a dichiarazioni agghiaccianti, come l’ultima di Agamben (autore del libro “L’invenzione di un’epidemia”, e il titolo dice già tutto), che sentito in Senato oggi, 7 dicembre, per il ciclo di audizioni su vaccini e Grenn Pass, ha candidamente spiegato che il primo Stato “intervenuto in modo obbligatorio sulla salute dei cittadini con un obbligo è stato lo Stato nazista per proteggere la razza ariana dalle malattie ereditarie”, tanto che “la legge fatta approvare da Hitler nel 1933, appena salito al governo, portò alla sterilizzazione forzata di 400 mila persone“. E ancora parole pesantissime come “discriminazione“, “barbarie“, “odio“, il tutto per una malattia che avrebbe solo “lo 0,2% di mortalità“. Da restare semplicemente esterrefatti.
Filosofi negazionisti e anche antiscientisti? Non proprio. Nella lettera congiunta i due filosofi aggiungono che “Nessuno invita a non vaccinarsi!. Una cosa è sostenere l’utilità, comunque, del vaccino, altra, completamente diversa, tacere del fatto che ci troviamo tuttora in una fase di ‘sperimentazione di massa’ e che su molti, fondamentali aspetti del problema il dibattito scientifico è del tutto aperto”. Che è un modo per continuare a inculcare nella testa delle persone il senso del pericolo e l’immagine paralizzante della “cavia”. Peccato che la fase sperimentale si sia conclusa, come da protocollo, nel momento in cui è partita la somministrazione di massa, che il monitoraggio prosegua nel tempo come per qualunque altro farmaco, e che la rapidità con cui si è giunti all’obiettivo è spiegabile con la gravità della situazione e le ingenti risorse messe ovunque a disposizione.
DEMOCRAZIA, DISINFORMAZIONE E MISURE SANITARIE
Intanto qualcuno, tra chi ogni giorno si occupa di informazione, ha capito quanto pericoloso possa essere dare il medesimo peso e il medesimo spazio a uomini di scienza e difensori di posizioni arbitrarie, o peggio a sostenitori di conclamate fake news: da Enrico Mentana per la7 a Monica Maggioni per Rai2 la linea è stata trasparente, severa. Nessun megafono, sui loro canali, a chi diffonde contenuti pericolosi o fasulli (gente che ha già a disposizione uno spazio immenso in rete, sui social e su realtà indipendenti di ogni sorta). Per molti un segno dell’azione repressiva che il sistema mette in atto contro dissidenti e voci critiche.
Ma è davvero così? Una democrazia non esiste forse, oltre che nella pluralità delle libere opinioni, nella meditata e responsabile articolazione degli spazi di condivisione? Non è lecito che un editore possa scegliere di incoraggiare – in un momento così delicato per il pianeta – comportamenti definiti dalla scienza corretti, utili, necessari? Sempre a proposito di “bene comune”. E invece, sarebbe tutto un piano per zittirci e renderci schiavi: “Io vedo il futuro”, dichiarava Freccero in una puntata de ‘L’aria che tira’, “Siamo qui a parlare, a litigare sui vaccinati e sui non vaccinati, mentre l’élite, il potere, pensa al futuro, pensa a come controllarci. Noi non siamo pecore, vogliamo votare e decidere il nostro futuro”.
La questione è certamente politica, nel senso profondo del termine. E bene lo sanno Cacciari e Agamben, che però in questi mesi hanno spinto la faccenda in una direzione inquietante. Così concludevano la loro lettera: “Il bisogno di discriminare è antico come la società e certamente era già presente anche nella nostra, ma il renderlo oggi legge è qualcosa che la coscienza democratica non può accettare e contro cui deve subito reagire”. È davvero così difficile accettare – al netto dei tanti errori commessi dai governi – che non sia qui un esercizio malato del potere, un desiderio di repressione, a muovere le famose oligarchie, e che il Green Pass sia solo una misura sanitaria adottata nel pieno di un’emergenza mondiale? Evidentemente appassiona di più l’altra versione, quella romanzata, quella che fa della “deriva anti-democratica” il refrain a tinte fosche di questi anni difficili.
E sì, da vaccinati ci si può ammalare, si può contagiare, ma il virus non arriva facilmente a intaccare i polmoni e ha un tempo di sopravvivenza nelle vie aeree (e dunque di contagio) assai minore: i vaccinati entrati in contatto col virus, così spiegano gli studi, si negativizzano rapidamente. E anche nel caso in cui il Sars-CoV-2 prenda campo, la malattia si manifesta prevalentemente in una forma contenuta, non grave, non mortale. Il beneficio che il sistema sanitario ne ottiene è tutto nell’alleggerimento delle Terapie Intensive, per non parlare delle migliaia di vite umane scampate alla morte, dopo la strage della prima, drammatica fase.
Perché non renderlo obbligatorio, allora? Perché la legge necessaria sarebbe ancor più divisiva e necessiterebbe di una maggioranza parlamentare a favore, col rischio di un impasse politico grave. E perché in fondo poco cambierebbe, a parte una maggiore complessità di gestione: vaccinarsi dietro obbligo non eviterebbe probabilmente, in questa fase critica, una qualche forma di controllo nei luoghi pubblici e nei posti di lavoro, e non comporterebbe – checché ne dicano i complottisti più fantasiosi – arresti di massa e blitz nelle abitazioni.
IL SENSO DEL CONTAGIO E DELLA RELAZIONE
La vera faccenda politica su cui occorrerebbe soffermarsi, con l’aiuto di chi si occupa di cultura e informazione, è semmai quella del gap che divide i paesi ricchi dai paesi in via di sviluppo o in piena povertà. Là dove il vaccino non arriva per assenza di fondi, dove le varianti possono meglio moltiplicarsi e spostarsi velocemente lungo le traiettorie internazionali, dove le condizioni igienico-sanitarie scarseggiano e la ricerca non trova sostegno, l’occidente benestante (e largamente colpevole) dovrebbe farsi due conti e intervenire. Se non per compassione, quantomeno per intelligenza: tutelare sé stesso, offrendo un’occasione a chi i mezzi non li ha. Due cose che finiscono per coincidere, in un mondo ridisegnatosi secondo parametri irrinunciabili di globalità e di comunicazione. Tutto è connesso, sempre. Un po’ come per un’altra importante e sottovalutata corrispondenza, quella tra il fenomeno delle migrazioni e la realtà dei cambiamenti climatici.
La straordinaria lezione politico-culturale che la logica del contagio e la catastrofe pandemica dovrebbero stimolare sta proprio in questa forma di consapevolezza: è nel volto dell’altro, nel destino dell’altro, poi nella pratica assidua della cura, che il senso della soggettività si compie, insieme all’idea di futuro. Anche in un’epoca definita dal pensiero scientifico, dall’iper-tecnologia, dalla virtualità. Ed è nella sfida delle relazioni che la complessità del reale si articola, evitando semplificazioni mediocri. Contro la dittatura – quella sì – della miseria, della malattia e del mancato accesso al sapere, la guerra è tutta da combattere. E riguarda anche e soprattutto chi ne è fuori.
– Helga Marsala
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati