Cultura e organizzazione: a che punto siamo in Italia?
Quando si parla di imprese, anche culturali, l’efficienza della loro organizzazione dipende da alcuni fattori fondamentali come l’autogestione, la pienezza e il proposito evolutivo. In Italia il quadro non è dei più confortanti
Ci perdonino i germanisti se con questo titolo diamo l’impressione, a chi come me non conosce il tedesco, di aver trovato quelle frasi a effetto in stile Sturm und Drang.
Nella società delle crasi, degli acronimi e delle sigle, abbiamo provato a tenere insieme le Imprese Culturali e Creative e il Ministero della Cultura (con il suo nuovo nome) con organizzazioni teal. Due mondi da una parte già assai distanti per teleologia, struttura, modelli di governance, visione e, dall’altra, un approccio strategico figlio del nostro tempo e frutto di nuovi paradigmi, adottato e in via di adozione crescente da parte soprattutto delle start-up e delle i-tech: quello delle teal organization.
Teal non è solo un colore (verde acqua) ma anche un modello organizzativo che ha il fine di integrare le risorse di un’impresa – umane, patrimoniali, economiche e finanziarie, relazionali e reputazionali – nel perimetro (che assomiglia più a una corte dei gentili che a un hortus conclusus) di tre valori fondanti e trasversali. L’auto-gestione (self management) come capacità naturale di auto-organizzarsi con flessibilità e responsabilizzazione crescente; la pienezza (wholeness) quale obiettivo di autenticità, fiducia e inclusione; e il proposito evolutivo, un concetto che supera il mantra del miglioramento continuo propinatoci da anni di certificazioni di qualità, per porre l’organizzazione nel villaggio globale in cui ci troviamo e farle apprendere come, avrebbe detto Tarkovskij, abitare il tempo.
“È solo partendo da una seria e robusta indagine sui dati che possiamo acquisire consapevolezza organizzativa”.
Quanto siamo lontani dai modelli fortemente gerarchizzati, in stile MIC, piuttosto che orizzontali/progettuali, habitus di molte ICC? Qui, più che misurare le distanze tra modelli scelti e perseguiti nelle prassi con tutte le loro degenerazioni (si pensi a come la parola stessa burocrazia abbia assunto nel tempo un’accezione negativa), verrebbe da dire che dovremmo misurare il commitment.
Che fine ha fatto? Dove sta? E non solo come obligation quanto come pledge, trust, confidence: valori che oggi ci vengono ri-consegnati dalla letteratura aziendale anglosassone le cui radici stanno tutte in quel “bello e ben fatto” di medievale memoria, quando ancora un oggetto non aveva pretese estetiche per qualcun altro se non il soggetto che ne deteneva la responsabilità della creazione e costruzione e l’oggetto stesso in sé.
I COLORI DAL RED AL TEAL
Il verbo misurare ci piace molto perché parte da un assunto non scontato: il dato. È solo partendo da una seria e robusta indagine sui dati che possiamo acquisire consapevolezza organizzativa (e non solo), senza la quale continueremo a navigare irresponsabilmente nel mare dell’autoreferenzialità o, peggio, a non mollare le cime restando fermi nel porto sbagliato.
I cinque colori utilizzati da Frederic Laloux nel suo Reinventing Organizations: An Illustrated Invitation to Join the Conversation on Next-Stage Organizations (2014) illustrano il percorso evolutivo da red (agli albori della civiltà) a teal (per le organizzazioni evolute contemporanee) attraversando una storia variopinta di amber (da 4.000 a 400 anni fa, caratterizzata da organizzazioni conformiste e gerarchiche), di orange (un modello orientato a obiettivi e risultati) e di green (l’ultima evoluzione all’insegna della sostenibilità).
Lo stadio (temporale) a cui sono ferme nei loro modelli organizzativi le organizzazioni culturali – poco importa se pubbliche o private, profit o non profit, e qui escludo volutamente le benefit – fa dannatamente riflettere. Poco importano le sfumature di giallo.
‒ Irene Sanesi
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #63
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