Si può ancora lavorare nel mondo della cultura?
“La situazione non è sostenibile”. I dipendenti del mondo della cultura sono pochi e sottopagati. È ora di fare qualcosa. Abbiamo sentito Ministero e associazioni, dati alla mano. Ecco qual è il quadro che si è delineato
Che lo Stato abbia smesso di investire nel settore culturale lo si ripete dagli Anni Novanta. Grazie al crollo delle assunzioni, alle mancate regolamentazioni del lavoro dipendente e non, alla carenza di nuove figure professionali, la condizione dei lavoratori del mondo della cultura si è aggravata al punto da rinnegare la natura stessa di lavoro umanistico, resiliente cioè alla meccanizzazione e alla più tecnicistica sostituzione. Creando, in parole povere, sempre meno lavoro e sempre più sottopagato.
Lavoratori a 4 euro l’ora lordi, ferie negate, turni infiniti e concorsi bloccati: non è stata la pandemia a rendere il mercato dei lavoratori della cultura un inferno in terra, scoraggiando ancora di più coloro che dalla laurea alla prima assunzione precaria si sono sentiti dire a ogni piè sospinto che “avevano prediletto la passione, a scapito della sicurezza”.
LA PANDEMIA E LE RIVENDICAZIONI SINDACALI
Nel corso dell’ultimo anno e mezzo, però, qualcosa sembra essere cambiato: il conflitto strisciante ha preso forma fisica nelle piazze e sui social, le proteste sono esplose da Napoli a Milano, da Firenze a Roma, da Trieste a Genova. Cartelli che lamentano a caratteri cubitali i pochi euro orari di stipendio, come accaduto davanti al Duomo di Milano nella protesta dei custodi dei Musei Civici lo scorso maggio, o ancora fogli appesi fuori dai musei che promettono scioperi se non vengono forniti i dipendenti minimi e necessari, come nel caso del traduttore del Maschio Angioino a Napoli a luglio o del personale carente agli Uffizi ad agosto, o ancora il grido di aiuto delle biblioteche di tutta Italia, che da Trieste a Pisa si sono viste tagliare i dipendenti da quasi 800 del 2016 ai 300 attuali.
Aggiungete una maggiore consapevolezza della preziosità del tempo personale (un regalo della pandemia?), la crescita del costo della vita e lo spettro dell’inflazione, e l’esplosione è assicurata. Più che frustrazione, sembra proprio la disperazione a caratterizzare le rimostranze degli ultimi tempi: con la polverizzazione dei fronti sindacali, le mancate promesse e i ritardi diffusi, i dipendenti sono quindi sempre più portati a sviluppare la percezione di non avere niente da perdere. E tutto da guadagnare.
COSA DICE IL MINISTERO DELLA CULTURA
Dipendenti precari e organici sottodimensionati sono diventati un leitmotiv arcinoto, al punto che lo stesso Ministero della Cultura – che più che essere al corrente del problema è costretto a conviverci, data la magrezza dell’organico interno e le relative proteste – sembra essere succube della burocrazia statale.
“Come ha detto più volte, il ministro Franceschini è più che favorevole a un piano assunzioni, ma è una cosa che non può fare da solo come ministro. Il blocco è diventato negli anni comune a tutte le assunzioni, così come l’assenza della copertura del turnover”, dicono ad Artribune dal Ministero. “Ci rendiamo conto che non è una situazione tollerabile. La platea dei dipendenti è molto sottodimensionata, quasi dimezzata, con un’età media che si avvicina ai 60 anni per i dipendenti interni al Ministero, e in alcuni uffici i pensionamenti sono superiori agli ingressi. Così è impossibile svolgere le funzioni. Il piano è noto, le proteste non sono altro che una presa d’atto che è chiara anche a livello politico”.
Perché non muoversi allora lato concorsi? “Anche i concorsi pubblici non stanno ai singoli ministri: servono una legge e le relative procedure. Sono state fatte negli anni delle assunzioni, per ora insufficienti chiaramente, con un processo che va rafforzato. Sarà sicuramente il tema al centro della prossima azione di qualsiasi governo, nel supportare anche in questa fase di attuazione del PNRR che richiede competenze e professionalità, soprattutto nel digitale, che ora non sono nemmeno contemplate nella pianta organica. Quello della mancanza di personale è un tema centrale, che non viene vissuto da noi come protesta: c’è una consapevolezza piena ed è una analisi corretta quella che sia necessario fare un piano di assunzioni”.
IL DECRETO COLOSSEO E LA DISPUTA DI TARANTO
Quella che appare come l’unica speranza è che con il nuovo governo si sblocchino le assunzioni previste dagli ultimi concorsi ministeriali (2019/2021), ma non molti ci credono. Una considerazione amareggiante, dato lo status di “lavoratori essenziali” attribuito con il Decreto Colosseo del 2015, varato dallo stesso Franceschini all’alba della protesta (autorizzata) che aveva serrato il tempio della cultura italiana in piena stagione turistica. “Con il Decreto Colosseo siamo diventati l’unico Paese a livello europeo ad aver inserito i musei all’interno degli esercizi pubblici essenziali: deve certo esserne garantita la funzionalità, quindi anche a livello di diritto di sciopero, ma il fatto che questi presidi debbano essere tenuti sempre aperti come ospedali e trasporti pubblici ha fatto sì che non ci siano più stati musei chiusi per assenza di personale”, dicono ancora ad Artribune dal Ministero.
E le notizie degli ultimi mesi? “È capitato, certo, in alcune circostanze, di avere musei chiusi per piani ferie e festività, ma le difficoltà sono state superate a livello locale. Taranto è un esempio, per cui abbiamo coinvolto le ditte private nella sorveglianza”. A luglio 2022 la Direzione Generale Musei aveva infatti convocato un tavolo per risolvere il conflitto tra la direzione del Museo Archeologico Nazionale di Taranto – lo stesso a cui dovrebbe arrivare in affido il gruppo scultoreo Orfeo e le sirene di ritorno dal Getty Museum – e i dipendenti, che hanno rinfacciato una drammatica carenza di personale, con appena 10.567 dipendenti in servizio a fronte di una dotazione teorica di circa 19mila unità. In risoluzione, il MiC si è impegnato a stanziare un finanziamento di quasi 25mila euro, che consenta ai dipendenti del MarTa di fare rotazioni retribuite. Certo, c’è stato bisogno delle ditte private, altro tasto dolente.
LA PIAGA DELL’ESTERNALIZZAZIONE
Quanto margine di speculazione c’è sui posti di lavoro collegati ai servizi aggiuntivi (e non) interni ai musei, dai bookshop alle caffetterie, ormai capisaldi dell’universo di apprezzamento museale? “Per i servizi aggiuntivi è stato definito un quadro diverso di gare attraverso Consip. Alcune sono state rapide mentre altre hanno mancato l’obiettivo di accelerazione”, spiegano dal Ministero. “Ma non c’è stata una cessione di terreno da parte del Ministero: attraverso Ales, società in house del MiC, abbiamo immesso diverse professionalità all’interno dei musei, che in alcuni casi hanno riportato dei servizi per visitatori tradizionalmente in mano a società esterne, essendo Ales al 100% pubblica. Non c’è in ogni caso alcun divieto per i privati del mondo della cultura, e la compresenza è corretta. Quello che magari dovrebbe funzionare di più, ed è stato detto diverse volte dal ministro, sarebbe un maggiore controllo su situazioni negative che permangono per decenni: è evidente che qualcosa non funziona”.
Sono tuttavia in molti a pensare che non sia un “quid” a non andare, bensì un sistema intero, e che la scelta di evitare gli ostacoli con i servizi esterni abbia un costo professionale e umano (troppo) alto. Raggiunta da Artribune, l’associazione Mi riconosci? Sono un professionista dei beni culturali – che da anni supporta la battaglia per le assunzioni e le giuste retribuzioni nell’ambiente – ha sottolineato come il problema sia sì attuale, ma “lo è da vent’anni: non c’è turnover e non escono i concorsi. Il risultato è che si esternalizza tutto. È così che si sopperisce alle carenze interne in Italia: questo porta a contratti non propri del settore e a paghe da fame, che vanno dai 4 agli 8 euro l’ora. A volte lordi. All’inizio erano solo servizi come l’accoglienza e la didattica, poi sono diventate esterne anche figure come restauratori, archivisti, catalogatori: tutti questi lavoratori o hanno contratti precari o addirittura non sono dipendenti e sono liberi professionisti a partita Iva”.
In tutto questo il ruolo del Ministero quale potrebbe essere, data la generale lentezza e ostilità della burocrazia e la loro sostanziale dichiarazione di immobilità forzata? “Queste non sono eccezioni: la cosa dipende dal Ministero, basterebbe all’inizio assumere a tempo determinato. Ci sono musei con più margine per maggiore autonomia, certo, ma il precariato caratterizza tutto il settore. La carenza di organico dello stesso Ministero, per esempio, è veramente drammatica. Mancano 7mila unità, e probabilmente a fine anno saranno 9mila: è quasi metà dell’organico teorico per farlo funzionare, e l’attuale piano assunzioni del personale non va a coprire le carenze”.
IL GIOCO DELLE TRE CARTE FRA SINDACATI E MINISTERO
Anche a luglio 2022 Maurizio Landini, leader della Cgil, aveva pubblicamente sostenuto che “siamo di fronte a una situazione critica: pessime condizioni di lavoro dei dipendenti che inevitabilmente si ripercuotono anche sull’efficienza del servizio, dalla gestione di musei, archivi, biblioteche, alla conservazione del patrimonio […] Attraverso un piano di assunzioni straordinario occorre far fronte immediatamente alla carenza del personale, così da poter anche realizzare gli obiettivi del PNRR. Parallelamente è indispensabile, in un mondo come quello dei beni culturali sempre più frammentato e instabile, una seria lotta al lavoro precario e dare attuazione al nuovo CCNL”. A partire dallo stesso Ministero.
Allarmi e richieste dei sindacati sono purtroppo sempre gli stessi: “Numerosi gli interventi dei lavoratori che hanno denunciato il grave peggioramento delle condizioni di lavoro, dovuto soprattutto all’inammissibile carenza di personale più volte e inutilmente segnalata, ma anche agli altri noti fattori che stanno determinando un declino apparentemente inarrestabile dei cicli lavorativi interni del Ministero”, hanno detto i rappresentati sindacali lo scorso luglio. Non che il Ministero queste cose non le sappia, anzi, dall’interno dichiarano di comprenderle e condividerle: “Non c’è uno scontro con le forze sindacali, anzi c’è un costante dialogo a livello ministeriale. Sono tematiche che si sta cercando di risolvere insieme di volta in volta. A livello locale e centrale dialoghiamo con le forze sindacali, e sul fatto che la pianta organica interna sia sottodimensionata c’è una concordia di vedute”, hanno precisato dal MiC. Una risposta troppo debole, stando ai lavoratori: “Il Ministero sa perfettamente la situazione, eppure non raccoglie i dati. Quello sarebbe un buon punto di partenza per migliorare la situazione”, proseguono dall’associazione Mi riconosci?. Che aggiunge: “Bisognerebbe mappare la situazione, per questo noi continuiamo a raccogliere numeri e testimonianze e sottoporre questionari, per avere sottomano la situazione concreta del precariato e dello sfruttamento nel settore della cultura. È come se il Ministero facesse finta di non vedere. È molto grave”.
DA PROBLEMA ITALIANO…
Alcuni ne fanno un problema spiccatamente italiano. Stando al Rapporto Bes Istat 2021: “Il paesaggio e il patrimonio storico e artistico sono beni comuni fondativi dell’identità italiana, tutelati dalla Costituzione e dalla Convenzione europea del paesaggio. La gestione di un patrimonio così importante, tuttavia, non appare adeguatamente sostenuta dalla finanza pubblica, con una spesa complessiva inferiore a quella dei principali Paesi europei, scarsamente orientata agli investimenti e segnata, a livello locale, da forti disuguaglianze, che penalizzano le regioni economicamente meno prospere ma non meno ricche di risorse da tutelare e valorizzare”. Nello specifico, “in Italia, la spesa pubblica per i servizi culturali (che includono la tutela e la valorizzazione del patrimonio) ha superato di poco i 5 miliardi di euro nel 2019. Tra le altre maggiori economie dell’Unione, Francia e Germania hanno speso molto di più (16,8 e 13,9 miliardi, rispettivamente) e anche la Spagna ha impegnato più risorse (5,5 miliardi). Rispetto all’anno precedente, inoltre, la somma spesa dall’Italia è diminuita del 5%, a fronte di una crescita del 2,6% nell’insieme dell’Unione. La spesa pubblica italiana in questo campo rimane, di conseguenza, tra le più basse d’Europa in rapporto al Prodotto interno lordo: il 2,8 per mille contro una media Ue del 4,8 per mille”.
Stando alla raccolta dati di Mi riconosci? risulta poi che il contratto di lavoro specifico per i lavori del settore, il Federculture del 1999 firmato da sindacati confederali di categoria e dall’associazione di imprese più rappresentative del settore, viene applicato solo nel 7% dei casi. “La sindacalizzazione bassissima è anche dovuta al fatto che la maggior parte delle persone sono esternalizzate e fanno molta più fatica ad avviare vertenze e trovare un sindacato. Avere una committenza pubblica e intanto appartenere a un’azienda privata porta ad avere due fronti di scontro, e questi sono lavoratori fragili e ricattabili che temono di sindacalizzarsi e portare avanti azioni. Bisognerebbe lavorare in questo senso, perciò noi sproniamo i lavoratori su questo punto come associazione. Se dall’alto non arriva un cambio di rotta, bisogna farlo dal basso”.
… A PROBLEMA GLOBALE
Altri invece fanno di questa situazione il volto locale di un problema molto più ampio, forse il motivo stesso per cui l’ICOM – International Council of Museums, l’organizzazione internazionale che rappresenta i musei e i suoi professionisti, ha avuto il bisogno di ribadire ad agosto 2022 come il museo debba essere “sostenibile”: concetto che deve dimostrarsi vero soprattutto per le persone che vi lavorano. Da poco tradotto in italiano grazie all’editore Nomos, il volume Lo sciopero della cultura. Arte e musei nell’epoca della protesta di Laura Raicovich – direttrice museale e attivista, già a capo del Queens Museum di New York – si concentra proprio sulle crescenti difficoltà nell’individuare l’identità dei musei nella contemporaneità, tra missione culturale, benessere dei dipendenti e ingerenze etiche. Secondo quanto riporta Raicovich, le istituzioni culturali sono sempre più spesso nel mirino della contestazione a livello americano e non solo, per condizioni di lavoro, fonti di finanziamento e nomine nei consigli di amministrazione. Raicovich, che come direttrice si è distinta per aver tentato di rendere il museo più connesso alla comunità locale e alle sue minoranze, riporta il nodo del problema alla natura stessa dei musei d’arte così come li conosciamo oggi: quella di istituzioni “intrinsecamente coloniali”, che sostengono valori conservatori e capitalisti, cosa che inevitabilmente si ripercuote sulle condizioni di lavoro. I luoghi della cultura non devono essere neutrali: per fare questo, bisognerebbe rovesciare in toto il paradigma che vede il museo come istituzione predatoria, accelerando il cambiamento richiesto da dipendenti e visitatori.
Gli scioperi globali sembrano confermare la sua visione, così come il fatto che, in un generale momento di declino dei sindacati negli States, i lavoratori museali siano stati protagonisti di una maggiore collettivizzazione delle prese di posizione, soprattutto etiche: un buon esempio è quello del giugno 2020 che aveva visto una denuncia di razzismo sul posto di lavoro firmata da più di duecento persone diretta a musei di primissimo piano di New York come il Metropolitan Museum of Art, il Museum of Modern Art e il Solomon R. Guggenheim. Anche grazie al lascito della Great Resignation – il movimento che nel 2021e 2022 ha visto soprattutto i giovani abbandonare lo sfruttamento lavorativo o ribellarsi alle pressioni corporate e non – sembra quindi esserci stato un risveglio.
LA SOLUZIONE È RALLENTARE
Certo, c’è ancora da crescere. In Italia, nonostante i numeri dei lavoratori, “lɜ professionistɜ che afferiscono all’ambito dell’arte contemporanea dimostrano di essere scarsamente tutelatɜ e rappresentatɜ, l’88% non è iscritto, infatti, a un sindacato o a un’associazione di categoria”, riporta l’AWI – Art Workers Italia. Fino a una maggiore presa di posizione, le flebili speranze ora stanno nell’attuazione del PNRR, che stando alla stessa Istat “rappresenta un’opportunità storica, innanzitutto per rafforzare l’impegno pubblico nella tutela e nella valorizzazione del paesaggio e del patrimonio culturale, ma comporta anche dei rischi, che inevitabilmente si accompagnano alla realizzazione di programmi d’investimento di tale portata e sollecitano un rinnovo della cornice normativa”.
Per evitare il peggio, a cui con il susseguirsi delle crisi economiche tardo-capitalistiche degli ultimi anni sembra non esserci mai fine, la soluzione di Raicovich è sia più diretta, sia molto più radicale: “Per produrre iniziative culturali che risuonino per più persone, al di fuori di una ristretta fascia di pubblico, se questo è davvero un obiettivo, è necessario rallentare radicalmente”, ha detto alla rivista Curbed nel 2022. “Dobbiamo capire che la velocità con cui produciamo cultura è in realtà dannosa. Non siamo in grado di pensarci completamente. Poiché gli sforzi sono raddoppiati intorno alle iniziative di diversità, equità e inclusione, deve esserci spazio per affrontare effettivamente questi problemi strutturali. Semplicemente non può essere aggiunto al normale carico di lavoro. Abbiamo bisogno di meno mostre all’anno, ma di un maggiore coinvolgimento con i tasselli strutturali del puzzle”.
PARLANO I DATI: ARTES NON DANT PANEM
Stando all’AWI – Art Workers Italia, l’associazione che dà voce a lavoratori e lavoratrici dell’arte contemporanea quali artisti, musicisti, curatori e quant’altro, “l’86% dellɜ art workers ha una laurea magistrale o un grado di formazione superiore in ambito artistico. Il 27,8% ha in curriculum esperienze di studio all’estero. Di questi, la maggior parte svolge la professione di artista (36,7%), il 14,9% lavora nell’ambito della curatela, il 10,2% in ambito accademico, il 10% nella produzione, il 9,4% nella comunicazione. Il 79% dellɜ art workers svolge più lavori, sia nell’arte contemporanea che, per un 39,8%, in altri ambiti. Di questo 39,8%, il 75,6% è costretto a farlo perché il lavoro nell’arte contemporanea non è sufficiente a mantenersi”.
Andando più nel dettaglio dei dipendenti museali, stando all’indagine Istat del 2020 su L’Italia dei musei, che ha censito le istituzioni museali e archeologiche nel Paese nel 2019, ci sono sul territorio nazionale 3.928 musei e raccolte di collezioni, 624 monumenti e 328 aree archeologiche. Si presuppongono investimenti, se non fiorenti almeno minimi, a favore di un patrimonio di tale mole. Eppure, il segretario nazionale della Uil pubblica amministrazione Federico Trastulli ha spiegato a Domani nel 2021 che “negli ultimi vent’anni è diminuito per legge l’organico, da 27mila a 19mila persone, e la mancata pianificazione delle assunzioni non ha garantito il turnover a fronte di pensionamenti di massa”.
COME SIAMO MESSI A DIGITALIZZAZIONE?
Spesso si parla di digitalizzazione come di Giano bifronte, opportunità di lavoro e di accessibilità da una parte e timore di sostituzione dall’altra. In realtà, siamo talmente indietro che il problema (e il beneficio) per il mondo della cultura ancora non si pone. “L’ultimo concorso aperto dal Ministero aveva aggiunto la categoria del funzionario per la promozione e la comunicazione, creando nuove opportunità, ma ad oggi nel pubblico le occasioni sul digitale sono poche e poco scremate come competenze, solo sul privato si stanno creando posti di lavoro”, spiega Maria Elena Colombo, consulente per istituzioni come il Museo Egizio, la Fondazione Benetton e il Teatro alla Scala sulla digitalizzazione, nonché contributor per Artribune. “Quelli più indietro sono i civici. Molte istituzioni magari inseriscono figure che si occupano di digitale e comunicazione, ma non si cambia schema organizzativo, con il risultato che figure giustapposte fanno fatica a creare un sistema osmotico: anche se c’è la comprensione della necessità di queste figure c’è poca reattività, anche nel privato o nel compartecipato”.
Giulia Giaume
Versione aggiornata dell’articolo pubblicato su Artribune Magazine #68
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