Chi sono i fruitori di cultura?
Perché i gusti culturali degli italiani sono ignoti a chi offre quel genere di servizio? E a cosa potrebbero servire quei dati? Una riflessione su pregi e difetti della profilazione
Qualsiasi servizio o prodotto che ci viene proposto, nel mondo fisico e ancor più nel mondo digitale, è il frutto di una accurata selezione. È un’idea che ha lavorato per diventare progetto: un’intuizione che, per divenire reale, ha dovuto identificare i potenziali beneficiari, convincere i potenziali finanziatori e strutturarsi in modo sempre più dettagliato (fornitori, canali di distribuzione, costi di produzione ecc.).
Se tutti ormai lo diamo quasi per scontato nel mondo digitale, la constatazione che sia così anche nel mondo reale sembra essere meno diffusa. È chiaro: nel mondo digitale tutti siamo profilati, Amazon conosce i nostri acquisti precedenti, se siamo abitudinari con Just Eat possiamo semplicemente ripetere l’ultimo ordine per le pizze a domicilio.
Nell’ambito reale la dinamica è meno “puntuale”, eppure ci pare ovvio che alcuni negozi siano situati in determinate aree della città. Bene. Non sono lì per caso. Anche quando in Italia la parola “marketing” era del tutto sconosciuta, i negozianti hanno sempre saputo che, se vuoi trattare alcuni prodotti, devi trovare le persone giuste cui venderli. È così per le strade dello shopping cittadino, ma era così ancor prima, con i commerci internazionali marittimi di Venezia, delle rotte commerciali britanniche, delle rotte dei fenici.
“Non sappiamo quanto gli italiani spendano in cultura, né tantomeno sappiamo in “cosa”.”
IL SISTEMA CULTURALE CONOSCE I PROPRI FRUITORI?
Quando quindi ci troviamo di fronte a un sistema culturale che non conosce chi siano i propri fruitori, non ci troviamo di fronte a un sistema che non guarda “al mercato”, piuttosto al cospetto di un sistema che, in fondo, viola una regola che è stata più o meno alla base dello sviluppo della nostra intera società occidentale.
Ogni banca sa esattamente noi chi siamo, quanto abbiamo sul conto corrente, quante volte ritiriamo e dove. Ogni supermercato sa cosa acquistiamo di solito, se siamo vegetariani o se siamo dei maniaci della pulizia. La catena Target, oramai non pochi anni fa, basandosi sugli acquisti di una ragazza, iniziò a inviarle cataloghi con prodotti pre-maman, sollevando l’ira del padre che, ignaro della gravidanza, accusò la catena di supermercati di voler influenzare la figlia, per poi scusarsi pubblicamente quando la figlia lo informò della propria condizione.
Ebbene, in un mondo come questo, l’unico settore che rimane quasi completamente ignaro dei propri interlocutori è quello dei musei. Certo, qualche anno fa scoppiò la bolla della profilazione: discrete quantità di migliaia di euro sono state investite per capire di più i visitatori – età, sesso, livello di scolarizzazione, talvolta il reddito, motivo della visita, città o paese di residenza ecc..
A fronte di tutti questi investimenti, però, sono tuttora scarse le notizie disponibili sulle preferenze culturali degli italiani. Non sappiamo quanto gli italiani spendano in cultura, né tantomeno sappiamo in “cosa”. Ancor più importante, non sappiamo quali siano i “generi” che preferiscano e quali fruizioni statisticamente sono più “compatibili”. Non sappiamo, ad esempio, se chi va a vedere un film d’autore poi vada anche in un museo. Né se coloro che frequentano gallerie d’arte contemporanea passino poi il loro sabato a teatro o vadano invece a una festa techno. Ed è chiaro che sono distinzioni che fanno la differenza.
RACCOGLIERE LE INFORMAZIONI E SOPRATTUTTO CONNETTERLE
Si tratta di una condizione veramente paradossale: una delle categorie di beni e servizi che maggiormente potrebbe beneficiare dalla mole di informazioni ad oggi facilmente accessibili è anche una delle categorie di beni e servizi che meno cerca di sistematizzare tale conoscenza. E questo perché non importa quanto frequentemente un museo chieda i dati ai propri visitatori, né tantomeno se lo fa con interviste sporadiche o con strumenti di analisi dei social network. Si tratta pur sempre di iniziative condotte a livello di singola organizzazione. Ciò significa, ad esempio, che una fiera d’arte ha a tutti gli effetti raccolto informazioni sui propri visitatori. Che il sistema di ticketing che gestisce la biglietteria del Colosseo conosce i dati degli acquirenti dei biglietti. Che un teatro privato dispone dell’elenco dei propri abbonati.
Ma significa anche che né la fiera d’arte, né il Colosseo, né il teatro privato sanno cosa fanno i propri visitatori al di fuori dei propri spazi. Per assurdo, i visitatori di ognuna di tali organizzazioni potrebbero essere visitatori abituali anche delle altre due, e gli unici a saperlo sarebbero esclusivamente i visitatori. Trasponendo tale condizione nel mondo fuori-dalla-cultura, è come se la card che tutti noi utilizziamo al supermercato valesse solo in uno specificato negozio, e non in tutti i punti vendita della catena.
Queste riflessioni vanno inserite nella più ampia cornice di scelta tra la gestione centralizzata o decentralizzata delle informazioni, e che questo tema riguarda, a ben vedere, quasi tutti i più importanti servizi che vengono attualmente garantiti ai cittadini. Perché quanto vale per i musei e le gallerie d’arte vale per quasi tutte le altre tipologie di organizzazione: quanto più l’informazione è gestita a livello “superiore” (ad esempio, il Ministero), tanto più è possibile connettere le varie informazioni, e quanto più tale connessione è possibile, tanto più sarà possibile estrarre dai dati una nuova conoscenza.
LA QUESTIONE DELLA PRIVACY
Certo, ci sono molti aspetti che vanno affrontati con consapevolezza, come la facoltà di poter agire rispettando la privacy dei cittadini, o la salvaguardia dei dati da eventuali attacchi cibernetici. Tuttavia, per quanto questi elementi vadano trattati in modo consapevole, è pur vero che ci sono altri servizi che trattano dati ben più sensibili di quelli relativi ai gusti culturali, come il Fascicolo Sanitario Elettronico, in cui sono conservate informazioni molto più delicate dell’ultimo concerto visto.
La costituzione di un registro che, in modo anonimizzato, consenta di raccogliere informazioni sui gusti dei cittadini italiani, potrebbe senza dubbio rappresentare uno strumento estremamente utile per la gestione di tutta l’offerta culturale pubblica e privata. Un registro che, per funzionare davvero, dovrebbe essere sicuramente volontario e prevedere tuttavia dei benefici per chi lo utilizza: da sconti per l’acquisto di servizi aggiuntivi nei musei a inviti a eventi organizzati per coloro che, ad esempio, hanno maturato un certo numero di acquisti legati a uno specifico genere musicale.
Costruendo un sistema che preveda la volontarietà del suo utilizzo, si potrebbe garantire a chi lo desidera la possibilità di mantenere tutti o parte dei propri acquisti “anonimi”, ma al contempo si incentiverebbe il ricorso alla condivisione di informazioni che, a ben vedere, potrebbero sicuramente migliorare il rapporto tra l’offerta e la domanda di cultura all’interno dei territori. Conoscere i gusti culturali permetterebbe di creare offerte più mirate. In termini di mostre temporanee, di convegni, di pubblicazioni, in termini di spettacoli teatrali, di proiezioni cinematografiche, di concerti.
PREGI E DIFETTI DELLA RACCOLTA DATI
Ovviamente, sarebbero dati che andrebbero trattati in modo intelligente, evitando di “appiattire” l’offerta sulla domanda espressa. Ma le informazioni disponibili sarebbero sicuramente uno strumento utile per chi pianifica alcune attività culturali.
Senza dubbio, l’attuale parcellizzazione delle informazioni rappresenta una condizione ancora temporanea, che presto sarà ad ogni modo superata. Non è possibile che sia più semplice cambiare il proprio medico di medicina generale che ottenere uno sconto-studenti in un museo. Non importa quindi chiedersi quando avverrà questo passaggio. Il punto è capire perché non sia stato già fatto.
Stefano Monti
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