Lavoro nella cultura: contratti precari e salari inadeguati. Il questionario di Mi Riconosci?

L’associazione costituitasi per vigilare sul lavoro culturale diffonde i dati dell’ultimo questionario rivolto ai lavoratori del settore. Ai limiti della legalità contratti e salari: la piaga delle esternalizzazioni

Precarizzazione, salari inadeguati, inquadramenti professionali nebulosi, tossicità degli ambienti di lavoro. È il quadro sconsolante che emerge dall’ultimo questionario sottoposto ai lavoratori della cultura dall’associazione Mi Riconosci?, gruppo costituitosi nel 2015 e da quattro anni impegnato a censire la qualità delle condizioni lavorative nel settore attraverso dati e testimonianze dirette di chi opera nel mondo dei beni culturali (e, anche se in percentuale meno significativa, nel comparto dello spettacolo). Se i rapporti precedenti si erano concentrati sugli effetti della pandemia e sulla prima fase di ripartenza del settore, l’ultimo lavoro presentato in Sala stampa della Camera dei Deputati per intercessione dell’onorevole M5S Anna Laura Orrico indaga in modo più approfondito tra le pieghe di un sistema del lavoro che, nuovamente stabilizzatosi sulla base di dinamiche svilenti ormai reiterate da decenni, “necessita di un tempestivo cambio di rotta”, come spiega Federica Pasini, tra le curatrici dell’inchiesta.

Mi riconosci? Questionario 2022

Mi riconosci? Questionario 2022

LA LEGGE RONCHEY E LE ESTERNALIZZAZIONI

E non è un caso che i risultati del questionario siano presentati in concomitanza con i trent’anni dall’approvazione della legge Ronchey, legge votata all’unanimità dal Parlamento il 14 gennaio del 1993, che stabiliva l’esternalizzazione dei servizi di musei e biblioteche, e sanciva la possibilità di utilizzare volontari a integrazione del personale nei musei, archivi e biblioteche statali. Se oggi il lavoro culturale in Italia è vittima di una precarizzazione imperante, sottolinea l’associazione, la colpa originaria è proprio di quella legge, “momento decisivo di peggioramento delle condizioni di lavoro nel settore dei beni culturali italiani” perché funzionale alla deresponsabilizzazione della pubblica amministrazione e fautrice di un sistema contrattuale che può funzionare solo abbassando il costo del lavoro. E le risposte al questionario – che ha raggiunto 2526 lavoratori o ex lavoratori (purché disoccupati da non più di un anno) del settore, tra dipendenti e autonomi; molto alta la quota femminile – sembrano confermare tutto ciò. Il dato più allarmante, in un quadro complessivamente negativo, riguarda la politica d’ingaggio: la maggioranza delle situazioni lavorative censite, spesso su appalti a commissione pubblica, rasenta i limiti della legalità, poiché solo un’esigua minoranza dei datori di lavori si affida al pur esistente contratto nazionale di riferimento (quello che fa capo a Federculture, rinnovato lo scorso 28 dicembre con la conquista della copertura per l’assicurazione sanitaria dei lavoratori). E la situazione è peggiorata negli anni, con la complicità di un Ministero immobile e disinteressato. In questo contesto si annida l’ancor più sconsolante regime delle paghe orarie, che remunera profili iperspecializzati con cifre non adeguate, anzi spesso non dignitose. Viste le condizioni in cui versa, dunque, anche il settore beneficerebbe dell’introduzione del salario minimo, considerazione su cui si trova d’accordo il 90% degli interpellati.

Mi riconosci? Manifestazione ottobre 2018

Mi riconosci? Manifestazione ottobre 2018

I DATI DEL QUESTIONARIO

La procedura di raccolta dei dati ha volutamente separato le risposte di lavoratori dipendenti e autonomi, per approfondire le criticità di ciascuna categoria. Hanno risposto persone che lavorano – a qualsiasi titolo, e con competenze diverse – in musei, biblioteche, archivi, siti archeologici, fondazioni culturali, archivi a qualsiasi titolo, con diverse competenze. E nella sezione comune volta a indagare sulle condizioni di lavoro (mobbing, rispetto dei diritti basilari come maternità e malattia, tenore dei colloqui di lavoro) gli intervistati hanno potuto raccontarsi in modo esteso, inviando per iscritto le proprie testimonianze. Tra i lavoratori dipendenti solo il 22% lavora per la pubblica amministrazione, il 75% per privati, principalmente cooperative, come risultato della politica di esternalizzazioni di cui sopra. In barba al contratto nazionale, la tipologia contrattuale più diffusa è quella dei multiservizi. Per quel che riguarda il salario, il 68,93% guadagna meno di 8 euro netti all’ora, il 50% meno di 10mila euro l’anno, il 72% meno di 15mila euro l’anno. Ecco perché, a fronte di un guadagno insufficiente per vivere autonomamente (per il 54% degli intervistati), spesso si è costretti a fare più di un lavoro. Il 31% delle risposte, invece, è arrivata da lavoratori autonomi, a partita iva o a ritenuta d’acconto. Significativo, però, è il fatto che il 63,8% di loro si dichiari libero professionista non per scelta, ma perché obbligato: il datore di lavoro, cioè, obbliga ad aprire la partita iva, come se fosse condizione unica e necessaria per lavorare. A conferma di questa stortura, il 73% di chi lavora nel settore con partita iva ha un committente principale, ed è pagato a ore o a giornata: il lavoro autonomo nella maggior parte dei casi maschera un lavoro dipendenteIl 40,3% di chi è autonomo guadagna meno di 8 euro l’ora.

PIÙ TUTELE PER UN LAVORO IPERQUALIFICATO

Rilievi, questi, che stonano con la formazione e le qualifiche dei lavoratori in questione, in maggioranza in possesso di una laurea magistrale e iperspecializzati. L’altra faccia della medaglia è quella rappresentata dai funzionari pubblici, che riportano la carenza drammatica di personale impiegato per il MiC (si parla di un 50% dell’organico necessario) e in conseguente affanno nella gestione del lavoro. Fotografa la situazione Umberto Croppi, direttore di Federculture: “Il lavoro in cultura dev’essere qualificato e dunque giustamente retribuito. Si tratta di un ruolo di natura sociale, in ognuna delle sue articolazioni. Ma il primo problema in Italia è che nel settore mancano proprio i numeri: non esistono censimenti specifici e lo stesso lavoratore non si sente parte del sistema. Anche noi, come Federculture, incontriamo difficoltà nel pubblicare il nostro rapporto annuale, basandoci solo di dati statistici, in mancanza di dati amministrativi. Dunque ben vengano queste ricerche, che sono da intendersi come carotaggi. Il rilievo lampante? il livello di istruzione qui è molto più alto che in altri settori, ma il corrispettivo retributivo è assurdo. Da parte nostra vogliamo mettere mano a uno statuto dei lavoratori della cultura come tappa di un percorso che dovrebbe portare a contratto unico, sia pure molto articolato”.

Livia Montagnoli

Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati