Cosa può fare la cultura per aiutare chi sceglie di autoisolarsi?
Con il termine giapponese Hikikomori s’identifica chi sceglie di ritirarsi dalla vita sociale per periodi più o meno lunghi. Un fenomeno sempre più diffuso, specie fra i giovani, che forse può trovare una soluzione nelle attività culturali
Dopo gli anni della pandemia, forse, era prevedibile che si tornasse a parlare del fenomeno Hikikomori. Il termine Hikikomori, in giapponese, significa stare in disparte, e viene utilizzato per indicare chi decide di ritirarsi dalla vita sociale per lunghi periodi, che si possono estendere fino a durare anni. Si tratta di un fenomeno che riguarda principalmente gli adolescenti, e sicuramente si concentra nella fascia di età che va dai 14 ai 30 anni. Le indagini sinora hanno indicato che coinvolge principalmente il sesso maschile, ma, trattandosi di un fenomeno in espansione, il dato potrebbe anche essere smentito nei prossimi anni.
Una recente ricerca, condotta dal CNR e dal Gruppo Abele, ha stimato che, soltanto in Lombardia, potrebbero essere coinvolti più di 8mila individui, dato che, secondo alcuni, risulterebbe in ogni caso sottostimato.
Quando si tratta questo tema, in genere, le riflessioni si concentrano su due ambiti principali: il primo riguarda la grande correlazione che esiste tra il fenomeno di autoisolamento e il massivo utilizzo di device tecnologici; il secondo è invece legato alle modalità attraverso le quali poter andare in aiuto del giovane o meno giovane Hikikomori, con evidente e giustificata preoccupazione da parte di amici e familiari. Raramente, però, si approfondiscono le modalità per prevenire la comparsa del fenomeno, se non quella di regolamentare l’utilizzo di smartphone e videogame, condizione che però rientra in una tematica più ampia ‒ quella più prettamente educativa ‒, che soltanto di rado coinvolge pienamente il mondo della cultura.
Eppure, quello degli Hikikomori potrebbe essere uno dei fenomeni in cui il nostro seppur malandato sistema culturale potrebbe avere un ruolo dirimente. Non tanto nella sua risoluzione, quanto piuttosto nell’insieme di servizi che possono essere strutturati per evitare che tale fenomeno si manifesti.
“Rintracciare le esigenze culturali e costruire un’offerta in grado di soddisfarle dovrebbe dunque essere già al centro delle attività culturali”
HIKIKOMORI E CULTURA
È chiaro che prevenire un fenomeno di questo tipo non può essere un compito attribuibile completamente al mondo culturale: è quindi necessario che gli interventi siano territorialmente progettati per essere coerenti con l’offerta di altri servizi, come il servizio psicologico, la consapevolezza nelle scuole e nelle famiglie.
Come detto, però, questa riflessione non intende concentrarsi su queste ultime istituzioni sociali, su cui è già presente un folto e qualificato dibattito. In questa riflessione si vuole piuttosto evidenziare il ruolo che anche la cultura può giocare nel prevenire questo fenomeno. Partiamo dunque dalle basi: sempre più autori interpretano come fattore di prevenzione la capacità di sviluppare, nei propri gruppi di riferimento, una buona socialità (alcuni utilizzano termini più tecnici come intelligenza sociale, intelligenza emotiva, ecc.).
Questo tipo di raccomandazione viene sviluppata soprattutto per la famiglia e, giocoforza, per la scuola, ma è qui che il nostro sistema culturale può intervenire in modo significativo: promuovendo spazi terzi di socialità che permettano di diversificare i gruppi sociali, al fine di evitare che il gruppo scuola, che in ogni caso avrà un valore fondante, non sia l’unico gruppo di pari. La riflessione è banale, se vogliamo: aumentando i potenziali gruppi sociali, si riduce il rischio che una sensazione di estraneità a uno di essi possa assolutizzarsi e divenire per traslazione una estraneità a tutti i gruppi sociali.
Inoltre, è da dire che, nella maggior parte dei casi, gli Hikikomori non rinunciano completamente alla socialità, perché spesso mantengono rapporti di tipo informatico: giochi online, server di Discord e tutti gli altri strumenti di comunicazione digitale disponibili.
In parte, quindi, se da un lato il ritiro sociale è spesso generato da un disagio all’interno del proprio gruppo dei pari, dall’altro è anche agevolato da una preferenza: le persone che si ritirano, prima di giungere a livelli acuti, possono essere attratte dallo stabilire relazioni online sia perché il mezzo informatico in qualche modo protegge, sia perché online si possono più facilmente trovare persone con le quali si condividono interessi o con le quali la relazione si avvia durante altre attività, come ad esempio le conversazioni con estranei che si instaurano mentre si gioca online che, pur nella loro specificità, rappresentano comunque un momento di condivisione.
“Ciò che la cultura può quindi attuare è una strategia volta a favorire, prima che si manifestino atteggiamenti di ritiro, la formazione di gruppi di persone legati da specifici interessi”
CULTURA VS AUTOISOLAMENTO
Ciò che la cultura può quindi attuare è una strategia volta a favorire, prima che si manifestino atteggiamenti di ritiro, la formazione di gruppi di persone legati da specifici interessi.
Si tratta di servizi che, in fondo, in molti luoghi esistono già, ma che vengono condotti in modo non sinergico: scuole di musica, ad esempio, o attività sportive, letture di libri e poesie, corsi di teatro per pre-adolescenti, fino ad arrivare a luoghi destinati alle attività più ludiche, come la creazione delle gaming-room all’interno delle biblioteche, o percorsi di creatività (dal design al disegno, dal fumetto alla stampa 3D), che possano quindi coinvolgere ragazze e ragazzi in momenti estremamente delicati. Comprendere, ad esempio, quali siano le passioni di queste persone, e fare in modo che queste passioni possano essere la leva per sperimentare nuove emozioni, nuove socialità.
Di certo non è solo con un’offerta culturale ampia che si eliminerà il problema, ma sicuramente sarà più facile identificare, anche in modo precoce, dei comportamenti anomali per la ragazza e il ragazzo che vivono una situazione di difficoltà. Perché se la vita sociale dei più piccoli si limita soltanto al gruppo classe e alla famiglia, sarà difficile distinguere un periodo problematico a scuola da un periodo di isolamento. Ma se una ragazza o un ragazzo fino ai 13 anni, oltre che a scuola e con la famiglia, frequenta sport, gioca ai videogiochi in biblioteca, segue un corso di fotografia mediante smartphone, va alle rassegne di anime, e poi di punto in bianco smette di frequentare qualsiasi altro contesto, è più facile anche per un genitore percepire il campanello d’allarme.
C’è di più: un’offerta di questo tipo, in realtà, dovrebbe probabilmente essere la normalità, e non di certo un’offerta strutturata esclusivamente per prevenire fenomeni di disagio.
Il nostro sistema culturale ha anche, tra i propri fini, quello di favorire la crescita del cittadino e, attraverso il cittadino, anche della società nella sua interezza.
Rintracciare le esigenze culturali e costruire un’offerta in grado di soddisfarle dovrebbe dunque essere già al centro delle attività culturali. Se poi questi elementi aiutano anche a favorire la crescita di individui in grado di interagire all’interno del proprio contesto sociale, e di imparare a gestire le proprie emozioni negative senza dover recuperare comportamenti ancestrali di evitamento, allora forse vale davvero la pena realizzarli.
Stefano Monti
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