Cultura e PNRR: perché l’Italia rischia di fallire su tutta la linea
Ci sono miliardi di euro da spendere eppure l’Italia fatica a ideare progetti che meritino di essere finanziati. Ma perché? E quali prospettive si aprono?
Ricapitolando: a Milano si perdono 12 milioni di euro di fondi PNRR green per la piantumazione di alberi; tra Venezia e Firenze se ne perdono 400 milioni per progetti PNRR riqualificazione (di cui 96 del MiC) riguardanti palazzetti e stadi che vengono bloccati dalla Commissione (che ha contestato la stessa ammissibilità degli interventi). In questo quadro, a oggi, l’Italia ha davanti a sé mesi di verifiche in più e l’intera terza tranche PNRR congelata (19 miliardi di euro). Senza contare che, dei fondi europei di coesione da rendicontare a fine 2023, fino a oggi l’Italia ha speso solo il 34% (rischiando di perdere oltre 86 miliardi di euro). In bilico, quindi, ci sono miliardi di euro da spendere o impegnare entro quest’anno, senza però buone prospettive di riuscire a farlo (a causa di inerzie e mancanze varie), con l’alto rischio di restituire quote importanti di questi stessi fondi a Bruxelles (e poi lamentarsi che non ci sono risorse).
“Non è che in Italia siano mancate le idee su cosa fare, è che manca il come farle, il chi, il come e il quando”
LA PROGETTAZIONE CULTURALE IN ITALIA
Che l’Italia abbia da sempre avuto un rapporto difficile con la progettazione europea si sa, ma la partita del Next Generation EU non prevede supplementari: avere 209 miliardi di euro a disposizione dall’Europa non significa averli ottenuti, ma solo aver accesso a un importo “potenzialmente disponibile” per l’Italia: quei fondi sono ancora tutti da “conquistare” di volta in volta, e i meccanismi per accedervi non contemplano “zone grigie”. Se non si rispettano alla lettera le regole del gioco (ad esempio comprendendo la differenza tra “aver già i fondi” e “poterli avere”), si rischia di non poter partecipare al gioco stesso.
È questa la sintesi della situazione in cui oggi il nostro Paese si trova nei confronti delle istituzioni europee, situazione che vive un rimpallo continuo di responsabilità tra organi dello stato, ministeri, regioni e comuni. Eppure, a essere fondamentale per l’accesso alle risorse europee è innanzitutto il livello di dettaglio e di precisione qualitativa e quantitativa richiesta dall’UE nella stesura dei Piani stessi e delle responsabilità di attuazione, con particolare attenzione al legame indissolubile tra riforme e investimenti (non spese), e alla capacità gestionale dei singoli decisori. Questo per determinare impatti di investimento non solo quantitativi ma anche qualitativi e favorire la maggior aderenza degli interventi all’economia reale, soprattutto in termini di benefici per la popolazione. Ed ecco il nodo centrale su cui l’Italia si è arenata: non è che in Italia siano mancate le idee su cosa fare, è che manca il come farle, il chi, il come e il quando; le modalità di realizzazione, i tempi e i risultati attesi, le forme di monitoraggio. Una “completezza progettuale” che deve (dovrebbe) passare da una capillarità di progettazione attraverso una partecipazione attiva degli enti locali, regionali, a partire dai territori e dalle comunità e realtà che li compongono, ma che ancora risulta latente. Per comprendere il perché di tutto questo occorre guardare i bilanci e i budget degli anni passati destinati alla cultura (tanto delle Amministrazioni locali quanto nazionali): le disponibilità sono progressivamente e costantemente scese nella spesa corrente. Questo cosa ci dice? Che in “passato” la considerazione degli interventi culturali e il relativo impatto in termini di “importanza” nei piani di sviluppo, sia nazionali che locali, non sono stati valorizzati adeguatamente. A meno fondi corrispondono meno progetti, quindi meno capacità e duttilità d’interventi complessi. Invece oggi il PNRR richiede rapidità ed efficienza decisamente superiori, soprattutto nella richiesta di risorse interne per spendere molti più soldi, in meno tempo e con una struttura e una governance nuova. E questo è un nodo fondamentale da sciogliere, perché da qui nascono gli intoppi e le conseguenze di cui sopra.
Perché non si può parlare tanto di spendere o investire, quanto di ripresa e rilancio del Paese senza avere piena consapevolezza della complessità del suo “capitale culturale”. Far ciò significa solo portare all’individuazione di soluzioni esclusivamente volte a risolvere una specifica criticità (od opportunità di visibilità effimera), semplificandola, lì dove invece occorrono azioni complesse. Non si può innovare con strumenti e approcci derivati da quelli del passato, con una parcellizzazione delle responsabilità ecumenica e orizzontale, soprattutto in termini di progettazione e programmazione. Il rischio è avviare numerose azioni la cui somma non farà la differenza in termini di sviluppo, ma solo di spesa. Si tratta di inserire una effettiva strategia in una visione del Paese. Non è più solo questione di “reperire e allocare le risorse”, una interpretazione che oggi sta spingendo il sistema Paese a una continua, frenetica rincorsa al finanziamento senza orizzonte. E in questo quadro il PNRR da opportunità rischia di diventare un problema.
PNRR. IPOTESI DI INVESTIMENTI VIRTUOSI
Eppure non mancano gli spunti da cui trarre ispirazione per investimenti virtuosi: l’Italia si attesta ai vertici mondiali per “quantità” e “qualità” riconosciuta del proprio patrimonio culturale. Questo nonostante l’Istat certifichi che, negli ultimi 12 mesi, quasi il 30% della popolazione italiana (sopra i 6 anni) non ha MAI fruito di ALCUN servizio culturale e creativo (dalle visite ai musei a concerti, dal cinema fino a libri e riviste). O che l’Italia sia solo 20esima su scala europea per quel che riguarda la percentuale (2,7%) di occupati nel settore della cultura. Allora “lavorare” sul tema “lavoro”, attraverso una nuova sostenibilità, non solo progettuale ma gestionale, potrebbe essere una prospettiva d’investimento utile a superare le reticenze della Commissione Europea e garantirsi quote rilevanti di fondi. Anche perché, da qui al 2026, in Italia, serviranno circa 100mila nuovi lavoratori per il settore della cultura e dello spettacolo (fonte Unioncamere-Anpal).
E parlando di spettacolo si apre un altro capitolo interessante: in Italia oggi sono 428 i teatri chiusi, talvolta abbandonati da decenni (ma non c’è un censimento aggiornato). La metà è di proprietà pubblica: comune, regione o demanio di Stato e uno su quattro è un edificio storico, vincolato dalle sovrintendenze. Chiudono per necessità di un restauro che spesso, per mancanza di fondi, non viene realizzato e molte città restano così prive di un luogo di aggregazione tra i più importanti per le comunità. Eppure, se da un lato si vive in un’epoca di progressiva contrazione delle risorse in spesa corrente (soprattutto delle amministrazioni locali), dall’altro le opportunità normative ed economiche (in gran parte date dall’Europa,
indipendentemente dal PNRR) ci sono tutte, e offrono nuove possibilità di gestione commista (spesso non impiegate) per intervenire e invertire la tendenza. Allora, forse, il problema sta a monte: un felice incontro tra le varie risorse a disposizione sui territori non si compie solo trattando di finanziamenti ma attraverso un nuovo patto di collaborazione tra soggetti pubblici e soggetti privati (terzo settore in testa), che vada oltre una prospettiva strumentale o di patrimonializzazione dei beni, e che crei le basi per un nuovo principio di condivisione della responsabilità culturale.
Ancora, i dati ci dicono che la rete delle biblioteche italiana è, a oggi, la struttura culturale capillarmente più diffusa sul territorio nazionale. Una filiera complessa e ramificata, fondamentale per contrastare la povertà educativa, che offre servizi a circa 26 milioni di persone (nel 2021), ma che vive in una situazione costantemente emergenziale, la cui distribuzione è fortemente disomogenea (con due terzi delle biblioteche in sette regioni), senza una strategia realmente comune a livello nazionale, lasciata (troppo) spesso alle singole sensibilità e al volontariato.
E, a proposito di volontariato, a oggi in Italia i volontari (quelli veri, non quelli “a favore” di telecamera) sono più di 5 milioni e mezzo, i dipendenti delle non profit quasi 800mila, per un impatto economico che supera i 64 miliardi, rappresentando il 3,5% del PIL (il 4,3 secondo altre stime). Si tratta di una risorsa sociale ed economica unica, ancorché troppo spesso considerata marginale. Immaginate il contributo allo sviluppo che un nuovo “patto” pubblico-privato potrebbe dare al sistema Italia, esaltando le relazioni tra enti pubblici, soggetti privati e territori. Parlando di innovazione e welfare di comunità, ad esempio, nel Regno Unito, in dieci anni, i progetti realizzati e ideati dal terzo settore, a fronte di 139 milioni di sterline di investimenti (di cui una buona parte ottenuti dall’Europa), hanno generato 1,418 miliardi di sterline di valore (fiscale, economico e sociale): dieci volte tanto. Pensate quindi alle potenzialità inespresse del nostro Paese, che conta innumerevoli rappresentanze del terzo settore (quasi 340mila), operanti in ogni settore, dalla sanità alla scuola, dalle biblioteche ai teatri ai musei al turismo, su ogni scala, in ogni area del Paese. Sfruttare l’opportunità di favorire realmente progetti gestionali nuovi, integrati, non solo economicamente ma anche in termini di formazione e accompagnamento allo sviluppo, potrebbe essere una buona idea.
“A meno fondi corrispondono meno progetti, quindi meno capacità e duttilità d’interventi complessi”
IL NODO DELL’EDUCAZIONE
E, trattando di formazione ed educazione, sempre in Italia, secondo i dati contenuti nell’Atlante dell’infanzia di Save the Children, 2 minori su 3, di età compresa tra i 6 e i 17 anni, in un anno non visitano mai una mostra o museo, un sito archeologico, e nemmeno vanno a concerti o a teatro o hanno letto un libro. Una povertà educativa grave, che porta all’apatia, alla perdita di valori e di significato nella vita dei nostri ragazzi. Tema che si lega all’abbandono di ogni attività di studio: a oggi, in un solo anno, sono stati quasi 600mila i 18-24enni che non hanno completato il ciclo di studi secondario, ovvero che sono senza un diploma (in alcuni casi neppure la licenza media) e sono privi di qualifica professionale, metà dei quali nel Mezzogiorno. La popolazione di una grande città intera.
Allora, magari, per creare le condizioni affinché tutti possano sviluppare davvero i propri talenti e “meriti”, si potrebbe iniziare da qui, dall’investire nel “capitale intellettuale del Paese” e poi sulla stretta relazione tra mercati emergenti, cultura, creatività e alta formazione. Perché l’Italia oggi si colloca ben sotto la media mondiale per investimenti in istruzione, con una spesa formativa per alunno di poco più di 7mila dollari con una ricchezza per abitante di 36mila dollari. Davanti a noi Paesi che toccano quota 15mila dollari per l’educazione primaria e secondaria, come la Norvegia, prima in classifica (con reddito pro capite di 70mila dollari) e molti altri che le si avvicinano quali la Svizzera (14mila dollari spesi per studente e 60mila dollari di reddito a testa), gli Stati Uniti (11mila dollari e 57mila di reddito pro capite), l’Irlanda (9mila dollari contro 52mila), la Germania (10mila dollari contro 48mila), la Gran Bretagna (12mila dollari contro 42mila dollari), la Francia (9mila dollari a testa di spesa per alunno contro 40mila di PIL pro capite). Ciò si configura nel livello di conoscenza e di competenza della popolazione italiana “attiva”: basso, troppo basso rispetto all’Europa, con circa un quarto della popolazione adulta che ha una laurea, contro la media del 40% dei Paesi avanzati comparabili al nostro per livello di sviluppo. In altre parole, spendiamo poco e male in istruzione limitando il nostro benessere economico presente e compromettendo quello futuro. Perché il problema non è solo la quantità, ma la qualità della formazione.
Giusto per parlare di alcune opportunità (mancate) di crescita e sviluppo e di orientamenti concreti e necessari per il nostro Paese. Paese curioso, in cui tutto è emergenza tranne l’emergenza vera: applicare in modo virtuoso i fondi del PNRR, invece che provare a intercettarli attraverso un camouflage in salsa rigenerazione per stadi e boschi dello sport.
Massimiliano Zane
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati