Turismo e cultura: una questione spinosa per l’Italia
Troppo spesso si vede nel turismo o un mezzo per far cassa in maniera rapida o, all’opposto, un mostro che divora le nostre città. Ma se invece imparassimo a considerare il turismo come un mezzo per produrre cultura, arginare il fenomeno dei cervelli in fuga e implementare in maniera equilibrata l’economia domestica?
L’Italia ha un problema con la cultura, e non è né un problema nuovo, né un problema da poco.
Un problema che può essere più o meno sintetizzato così: la cultura italiana sta trasformando l’Italia in un prodotto. Il che può suonare eccitante per la schiera di persone che vivono di marketing territoriale, e altrettanto soddisfacente per chi vive di turismo. Ma basta estendere di qualche lustro la visione per vedere l’entusiasmo svanire. Per almeno due motivi: il primo è che quello che si potrebbe impropriamente definire come un processo di “turistificazione” del nostro Paese non riguarda soltanto la cultura ma, al contrario, quasi tutte le dimensioni della nostra società. Il secondo è che, al di là di qualsiasi slogan politico e accademico, una nazione non può vivere di solo turismo. Si badi bene: qui non si intende affatto demonizzare il turismo, non si intende adibire una gogna su cui esibire la mercificazione della cultura né profetizzare la distruzione delle città d’arte a causa dell’overtourism.
Nella nostra, come in altre economie, il turismo ha delle funzioni importantissime: serve a fare apprezzare il Paese, serve a favorire un’offerta ricettivo-ristorativa all’interno del tessuto imprenditoriale, serve a valorizzare alcuni luoghi che, con i fondi dell’economia domestica, tenderebbero naturalmente a un lento declino e funge da stimolo per la creazione di servizi di prossimità. È però inconfutabile che una nazione vive anche di quelle che vengono definite come industrie in senso stretto, così come è inconfutabile che, date le dimensioni della nostra economia, e l’estensione del nostro mercato domestico, una parte importantissima della nostra economia è rappresentata dalle esportazioni.
A dispetto di ogni evidenza, tuttavia, negli ultimi decenni la nostra visione di sviluppo ha favorito un processo che, piuttosto che favorire l’esportazione di prodotti, ha favorito l’esportazione di produttori. Al posto dei servizi abbiamo esportato competenze.
È una dinamica oramai evidente: è stato fatto con la moda, con la tecnologia, con l’ingegneria, con gli asset immobiliari, e questo processo ora coinvolge la cucina, lo sviluppo di software, le competenze in ambito finanziario, il saper-fare artigiano, l’intuito del design, la cultura.
In questo senso, quindi, “turistificare” non vuol dire mercificare, sovraesporre o iper-sfruttare: vuol dire piuttosto depauperarsi della capacità di trasformare la visibilità del nostro Paese in ricchezza reale autonoma. Non si tratta di retorica, ma di sfiducia e di uno scenario economico da troppo tempo insoddisfacente.
“L’Italia tende a perdere un numero importante di cittadini i quali, in Italia, potrebbero contribuire alla creazione e al consolidamento della cultura italiana attuale”
IL NODO IMMOBILIARE FRA TURISMO ED ECONOMIA
Prendiamo un esempio scolastico. Si prenda una città di piccole-medie dimensioni del nostro Paese. Si supponga che, a parità di condizioni, questa città venga citata come la meta più consigliata d’Italia in tutte le riviste internazionali e che, a fronte di ciò, quella città conosca un grande incremento del flusso turistico. Si prenda ora, ad esempio, il proprietario di un immobile nel centro storico di tale città, che riconosce, nell’incremento del flusso turistico, un’opportunità di tipo monetario. Tale opportunità potrà svilupparsi in tre modalità: la prima è quella di monetizzare l’aumento del valore dell’immobile attraverso transazioni immobiliari temporanee (turistiche, commerciali, ecc.). La seconda è monetizzare la maggiore visibilità dell’immobile utilizzandolo per promuovere una propria società o un proprio progetto. La terza è quella di vendere l’immobile.
È evidente che, tanto nel primo quanto nel secondo caso, il proprietario dell’immobile crede che l’incremento del valore del proprio bene, e, indirettamente, l’entità dei flussi turistici, abbiano un carattere di lungo periodo. Al contempo, ritiene anche che il sistema economico, legislativo e fiscale in cui opera sia favorevole, e che presenti opportunità di lungo periodo. Ed è evidente che vive in uno scenario economico che gli consente, senza troppe difficoltà, di porre in locazione l’immobile, sia in termini di risorse economiche proprie, sia in termini di dinamismo della domanda di immobili in quel luogo della città.
Di contro, chi ritiene l’incremento del turismo un fenomeno temporaneo, e di conseguenza anche l’incremento del valore attribuito all’immobile; chi ritiene che il contesto socio-economico e tributario di riferimento sia poco dinamico e disincentivante; chi, infine, ritiene che le imposizioni fiscali tenderanno a crescere nel tempo, piuttosto che a diminuire in termini di parità di potere d’acquisto, tenderà semplicemente a vendere l’immobile.
Cosa comporterà tale trasferimento? Un incremento immediato della ricchezza dell’ex proprietario, di cui solo una piccola parte sarà reinserita all’interno dell’economia domestica. Si ipotizzi ora che tutti i proprietari di immobili si rendano conto di questa opportunità, e che tutti riescano a cedere la propria abitazione a soggetti internazionali, ed ecco che emerge come, dell’incremento delle spese totali sostenute dai turisti per visitare il nostro Paese, soltanto una parte sarà ridistribuita all’interno dell’economia domestica, andando da un lato a retribuire il soggetto internazionale che detiene l’asset.
“‘Turistificare’ vuol dire depauperarsi della capacità di trasformare la visibilità del nostro Paese in ricchezza reale autonoma”
TURISMO, CULTURA E FUGA DI CERVELLI
“Turistificare” è dunque privarsi degli asset che potrebbero generare, a prescindere, un’economia reale, divenendo, quindi, dipendenti dal turismo e del turismo. Significa, in pratica, dare a terzi la capacità di sfruttare, sotto il profilo economico e produttivo, un patrimonio che avrebbe invece potuto rappresentare un’opportunità di incremento di medio termine della ricchezza domestica. È quello che è successo con le imprese del lusso, con l’automotive, con le strutture ricettive. Ed è quello che succede, ogni anno, con le nostre risorse umane, senza comprendere che, oltre all’esportazione delle competenze, si riduce anche il livello di cultura contemporanea presente nel nostro Paese.
Non si parla soltanto di brain-drain, o, all’italiana, di cervelli in fuga. Si tratta dell’elemento culturale di cui tali persone sono portatrici. Per capirci: nel solo 2020, non sono espatriati soltanto 23mila laureati tra i 25 e i 39 anni, ma sono espatriati 23mila adulti tra i 25 e i 39 anni. Si parla di un tasso di espatrio, per i soli laureati, di quasi il 9 per mille, in una fascia d’età già di pe sé ridotta all’osso.
Questo che cosa significa? Significa che l’Italia ha perso delle persone che avrebbero potuto, in altre circostanze, sviluppare economie reali per il nostro Paese; e che l’Italia tende a perdere un numero importante di cittadini i quali, in Italia, potrebbero contribuire alla creazione e al consolidamento della cultura italiana attuale, potenziando quindi la possibilità di continuare a produrre contenuti, prodotti e servizi rappresentativi. Li perdiamo, tendenzialmente, per le stesse ragioni per cui oggi un gran numero di immobili di Venezia è di proprietà russa, cinese o statunitense: perché non vedono, nel nostro Paese, una reale prospettiva di sviluppo.
In questo senso, il rapporto tra turismo e cultura può essere interpretato come un caso emblematico e anticipatorio. E deve forse far riflettere un po’ meglio sull’importanza della nostra grammatica, perché ormai, sempre più spesso, investire nel nostro Paese non viene interpretato come un complemento di scopo, ma come un complemento di luogo, facendo di noi un Paese in cui si estraggono commodities che vengono poi investite e valorizzate in processi produttivi all’estero, generando, all’estero, la maggior parte della ricchezza.
E tutti noi sappiamo quanto poco guadagnino quei Paesi che non sanno valorizzare le materie prime che esportano.
Stefano Monti
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