Il potere di sbagliare: una risorsa per la cultura e per l’economia
Sbagliare come sinonimo di libertà e quindi di dinamismo, specialmente per le industrie culturali e creative. È questo lo spunto di riflessione su cui ci siamo interrogati
In una recente intervista, Pierfrancesco Favino ha evidenziato un elemento estremamente importante della nostra industria culturale e creativa: le conseguenze di una sostanziale sotto-capitalizzazione. L’attore e regista ha sottolineato come un piccolo film indipendente americano, quale è Rush, sia costato 45 milioni di dollari, mentre un nostro grande film ne costa 10. La dimensione che dovrebbe far riflettere, tuttavia, non è semplicemente quella del confronto tra l’industria cinematografica italiana e quella statunitense, condizione nota e difficilmente modificabile. L’aspetto a cui prestare maggiore attenzione è forse ciò che nei fatti implica la differenza di budget.
La conseguenza più importante non sta nella possibilità di realizzare effetti speciali, ma nel fatto che la disponibilità di un budget fornisce l’opportunità di sbagliare.
Quest’ultima è spesso sottovalutata nella nostra quotidianità, ma è invece una delle caratteristiche più importanti non solo in un contesto creativo, ma anche economico.
Chi ha la libertà di sbagliare, che si tratti di una pellicola o di un progetto imprenditoriale, ha la libertà di rischiare. La libertà di avviare qualcosa che, spesso contro ogni probabilità, può rivelarsi sorprendente. Questa libertà, in un contesto imprenditoriale, si chiama dinamismo economico, ed è una condizione che si ripercuote a tutti i livelli della società. Vivere in un contesto economico dinamico permette al laureando di avviare una start-up, permette al diplomato di poter seguire le proprie ambizioni e divenire un artista o un performer; permette all’imprenditore di poter investire su progetti ad alto tasso di rischio; permette alle imprese di poter ricevere finanziamenti per progetti innovativi.
“L’Italia, non è un Paese povero. È un Paese statico”
L’ITALIA, IL LAVORO, IL DINAMISMO
Assunta dunque l’importanza dell’errore nella nostra vita, ancor prima che nella nostra società, resta da capire come cercare di tutelare questa libertà nel nostro contesto concreto.
Per farlo, è bene sottolineare un elemento fondamentale: il nostro Paese, l’Italia, non è un Paese povero. È un Paese statico. Si tratta di un dettaglio che, in questa riflessione, assume un carattere dirimente, poiché permette di affermare che questa libertà di sbagliare non è determinata soltanto dal budget, malgrado innegabilmente questa dimensione incida.
Sono tante le informazioni che è possibile citare per dare concretezza a questo punto di vista: sotto il profilo imprenditoriale, nel nostro Paese, ha più libertà di sbagliare uno studente al primo anno di università che un amministratore delegato, eppure, fatte sempre le dovute eccezioni, è pacifico ritenere che l’amministratore delegato di una società disponga di mezzi maggiori rispetto a quelli di una matricola universitaria. Gli aggregati economici italiani negli Anni Settanta erano inferiori a quelli attuali, eppure c’era un dinamismo economico che oggi è assente.
Ciò significa che, quindi, è possibile impegnarsi per la creazione di un ambiente dinamico, dal punto di vista economico e sociale, anche senza disporre di budget notevolmente più ampi di quelli a oggi disponibili. Serve fiducia nel dopo. Perché è quella fiducia che dà coraggio. E quel coraggio premia. Esiste un metro per misurare quanto questa fiducia manchi nel nostro Paese. E questo metro è il numero di persone che conducono un lavoro che non fornisce loro stimoli, con una paga inferiore rispetto a quella cui potrebbero ambire, e con mansioni inferiori rispetto al proprio titolo di studio, soltanto perché questi lavori danno loro un contratto di lavoro a tempo indeterminato. Tutti noi conosciamo qualcuno che vive questa condizione, che cesserebbe per incanto di esistere se avesse fiducia nel fatto che, abbandonato questo lavoro, potrebbe trovarne un altro.
IL FUTURO DELLE ICC
E il dinamismo non si misura con la ricchezza. E questa è una lezione importantissima per quelle industrie culturali e creative che, sotto-capitalizzate, poco strutturate, incerte sul da farsi, cercano ogni giorno di tutelare la propria attività come se fosse l’unica possibilità, fino a scendere a compromessi che consentono sicuramente una maggiore stabilità, ma che distraggono dall’eccellenza che, invece, il nostro settore delle ICC potrebbe esprimere a livello nazionale e internazionale.
Un tema che, forse, merita una riflessione da parte di molte micro-società nazionali.
Stefano Monti
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati