Gestione del patrimonio culturale: strategie e riflessioni fra pubblico e privato
Mentre il Ministero della Cultura appare sempre più intenzionato a riconquistare ambiti oggi in mano ai privati, è d’obbligo domandarsi quali siano le scelte migliori per la collettività
La cultura non è la nuova scuola. Probabilmente qualcuno potrà ancora offendersi nel leggere questa affermazione, ma è pacifico che per decenni il nostro Paese ha utilizzato la “scuola” come “ammortizzatore sociale”. Queste scelte politiche hanno sicuramente generato dei benefici sotto il profilo del reddito delle famiglie e sotto il profilo della popolarità di alcuni partiti politici, ma hanno anche creato non pochi problemi allo sviluppo del nostro sistema scolastico, con conseguenze non sempre insignificanti sul sistema culturale, sociale ed economico del Paese. Trattandosi di uno dei temi tabù, va purtroppo necessariamente detto che ci sono dei professori che sono encomiabili, per competenza, passione e dedizione con cui svolgono il proprio lavoro, mentre ce ne sono altri (e sono anche tantissimi) che magari lo sarebbero se lavorassero in un “clima culturale” differente.
Pur non volendo far arrabbiare nessuno, non si può nemmeno negare che ci siano, nelle nostre scuole, dei seppur minimi margini di miglioramento. Ed è bene sottolineare questi margini di miglioramento, perché si percepiscono segnali deboli che potrebbero far pensare che si stia cercando di ripetere quanto già fatto con la “scuola” all’interno del Patrimonio Culturale.
Come riportato da Ansa, infatti, a margine della manifestazione Italia è Cultura, il rettore dell’Università di Studi Europei Jean Monnet, Salvatore Messina, ha dichiarato: “In Italia ci sono 3.400 musei, 2.100 parchi archeologici, 43 siti Unesco: questo è il più vasto patrimonio artistico/culturale al mondo e appartiene a noi. E potrebbe portare oltre 700mila nuovi posti di lavoro“. Affermazioni che non possono non ricordare l’attivazione, annunciata appena qualche settimana fa, di un sistema di biglietteria per i musei autonomi a proprietà pubblica, per la cui gestione i suddetti musei autonomi avrebbero potuto contare su personale eventualmente assunto dalla Ales S.p.A, altra società pubblica.
“Un Ministero, pronto a mettere a pagamento anche la vista dei panorami, dimentica che a fare i grandi numeri, a detenere i Big Like, sono veramente in pochi”
CULTURA E BENE DELLA COLLETTIVITÀ
Benintesi, il tema di questa riflessione non è se sia o meno possibile per il nostro settore pubblico avocare nuovamente a sé funzioni ormai da anni affidate a privati. Il tema di questa riflessione è se e quanto tale visione culturale sia sostanzialmente nociva per i cittadini.
Su questo punto va liberato il campo anche da alcuni pregiudizi ormai obsoleti: la Pubblica Amministrazione ha fatto grandi passi avanti, migliorando l’efficienza e l’efficacia del proprio agire, adeguandosi a standard che, pur non in linea con quelli dell’Unione, comunque non sono così tragici come lo erano anche solo pochi anni fa.
Pur essendo noti tali notevoli miglioramenti, tuttavia, non possiamo ignorare alcuni elementi che, senza in alcun modo essere critici nei riguardi della PA, vanno tuttavia inseriti all’interno della riflessione.
Punto primo: i tagli alla cultura. Malgrado abbia poco senso l’ardore con cui molti operatori non fanno altro che richiedere una spesa pubblica in “percentuale” sul PIL, è opportuno ricordare che la cultura, spesso, è stata spesso oggetto di ridimensionamento sotto il profilo della spesa pubblica. Voler statalizzare l’intero patrimonio culturale, in questo senso, comporterebbe non pochi problemi. Spiegarlo è semplice: se su un budget totale di 100 euro circa 80 vengono destinati alle Risorse Umane, ogni contrazione va completamente a trasferirsi su tutte le altre funzioni e missioni, posto che, chiaramente, nessun museo e nessun ente rischierà di intraprendere una battaglia legale contro un dipendente sottodimensionato.
Punto secondo: il peso politico della cultura. Definire un Ministero così ampio varia, e non di poco, il peso politico di coloro che ne sono posti a capo, creando tuttavia una non sottile contraddizione: chi sarebbe chiamato a titolare il dicastero avrebbe una delle più forti e (si spera) più colte coorti di elettori, e una delle minori dotazioni economico-finanziarie.
Punto terzo: la storia e la geografia. Per quanto si voglia davvero essere propositivi e accettare qualunque proposta senza nutrire pregiudizio alcuno, è però importante ricordare che, nel tempo, fino a non tanti anni fa, i musei erano già gestiti completamente dal pubblico. Sembrano secoli, è vero, ma solo perché di secoli è stato il balzo in avanti dal momento in cui i privati hanno avuto accesso. Se la storia non insegna, si pensi dunque alla geografia. Ma non alla solita geografia del nord contro sud. La geografia dei pochi metri. Quelli che separano, ad esempio, un museo autonomo da un museo non autonomo. Basta questo per capire la differenza. Certo, assumere 700mila, 1 milione, 3 milioni di lavoratori, tanti quanto i disoccupati in Italia, migliorerebbe sicuramente la condizione. Ma a che prezzo per la collettività?
Punto quarto: la concretezza. Oggi pare che sul Ministero della Cultura si giochi la grande battaglia delle risorse del Paese. Un Ministero, pronto a mettere a pagamento anche la vista dei panorami, dimentica che a fare i grandi numeri, a detenere i Big Like, sono veramente in pochi. E non a caso sono proprio quei musei autonomi, istituiti qualche anno fa, che da quando si sono “allontanati” dal Ministero hanno iniziato a crescere.
Di certo questa non vuole essere un’analisi esaustiva di tutte le dimensioni che bisognerebbe prendere in considerazione per valutare se e come procedere con un processo che vede sempre più importante il ruolo del settore pubblico all’interno della gestione del patrimonio culturale. È anche vero che ignorarle porterebbe con ogni probabilità ad assumere una decisione tecnicamente poco solida. E, salvo i liquidi non newtoniani, le prime cose che vengono in mente quando si evoca un concetto di solido “ma non troppo” sono le paludi e le sabbie mobili.
Stefano Monti
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