Lavoro culturale: futuro dell’occupazione o grande bluff?
Che cosa significa lavorare nel mondo della cultura? E quali sono le reali prospettive per i giovani che scelgono di investire nella propria formazione in questo settore?
Da un po’ di tempo non si fa altro che parlare di lavoro culturale. Lo si fa quando si va a teatro (proteste dei precari), quando si va al cinema (stanno scomparendo tutti), quando si visita un museo (i giovani che non trovano posto). Lo si fa quando si commentano le statistiche sulla cultura, che non mancano mai di sottolineare quanti mille-mila occupati genera il settore e via discorrendo. Ma cosa significa lavorare nel mondo della cultura?
Tecnicamente, dati i confini che assume la visione di cultura nel nostro tempo, praticamente nulla. Un avvocato che si occupa di diritto dell’arte, ad esempio, lavora nella cultura? Un consulente finanziario per le imprese culturali e creative lavora nella cultura?
Quando ad esempio si sostiene che la cultura assorbe circa il 6% dell’occupazione totale in UE, sono compresi anche gli artisti emergenti? Sia chiaro, queste domande sono tutt’altro che nuove: le incertezze che lasciano emergere sono il reale motivo per cui nessuno abbia davvero capito cosa sia il settore culturale e creativo, malgrado gli innumerevoli tentativi promossi dall’università e dall’Unione Europea, molti dei quali sicuramente pregevoli, ma mai definitivi.
Facile dunque comprendere il perché si ricorra a necessarie semplificazioni: se è così difficile definire quali siano i settori produttivi che partecipano al cluster delle industrie culturali e creative, stabilire tale appartenenza nel caso delle professioni lo è ancora di più.
Un esempio concreto può aiutare. Immaginiamo dunque un’impresa che senza ombra di dubbio appartiene al cluster delle ICC: una società editrice che pubblica esclusivamente libri d’arte o romanzi di letteratura. Che dire dunque del proprio responsabile amministrativo? Il ruolo che svolge può essere definito lavoro culturale?
Ancora, si pensi a una di quelle società che si occupano della creazione dei servizi di assistenza alla visita nei musei. Gli operatori che, nel museo, si occupano delle attività di accoglienza, informazioni e ticketing sono degli operatori culturali? Di esempi di questo tipo ce ne sono migliaia. Eppure si continua a parlare di lavoro culturale, anche se nessuno, in realtà, sappia davvero che cosa sia.
“Se non si riesce a dare una reale concretezza al concetto di cultura, cerchiamo di dare solidità al concetto di lavoro culturale”
LAVORO NELLA CULTURA: COSA SIGNIFICA?
Non si tratta di dibattiti epistemologici: se affermiamo che su 100 posti di lavoro 6 sono occupati dalla cultura, stiamo dicendo a ragazzi e ragazze che devono decidere di entrare nel mondo del lavoro o intraprendere un percorso universitario che per loro c’è posto. Non tutti ce la fanno, ovviamente, ma 6 su 100 sì.
Queste affermazioni, in altri termini, hanno il potere di incidere su scelte di vita molto importanti. Se un ragazzo che vuole lavorare nella cultura decide di andare all’università piuttosto che lavorare in fabbrica sta rinunciando a delle entrate, estendendo il periodo di vita senza lavoro, estendendo le proprie spese e le proprie uscite. E questo significa riduzione dei risparmi dei genitori e dei nonni, o riduzione degli investimenti, significa riduzione del gettito fiscale, riduzione del periodo di contribuzione al sistema pensionistico (gli anni di riscatto della laurea, per quello che costano, sono un’ipotesi da scartare), stanno posticipando scelte di vita importanti (la costruzione di una famiglia, di una casa, rimandando la nascita di un figlio, incrementando l’età media della popolazione, ecc.).
Scelte che sono fondamentali, e che apportano dei benefici certi alla nostra società, ma che devono essere assunte in modo razionale, con fonti di informazione che sappiano ben illustrare le reali possibilità di lavoro successivo.
Così, giusto per dare dei numeri, in Italia, a gennaio 2023, gli occupati erano circa 23,3 milioni. Il 6% di 23,3 milioni equivale a circa un milione e mezzo di posti di lavoro nella cultura. Sono tutti curatori? Sono tutti musicisti? Sono tutti scrittori? O sono uscieri, portieri, responsabili amministrativi, maschere, elettricisti, segretari, manovali?
Ogni lavoro ha una grandissima dignità. Ma è chiaro che, se una persona studia per 5 anni più master vari per poter divenire un curatore d’arte contemporanea, vedrà come poco dignitoso il suo ruolo di custodia presso un museo di provincia.
Se non si riesce (per fortuna) a dare una reale concretezza al concetto di cultura, cerchiamo di dare solidità al concetto di lavoro culturale. Cerchiamo di chiarire bene questo concetto. E cerchiamo di ricordare anche il valore economico degli stipendi. Perché l’università di certo non deve essere interpretata come strumento esclusivo per guadagnare di più, è vero, ma è chiaro che se non ha impatti sulla retribuzione futura allora può essere una scelta molto più ponderata quella di intraprendere l’università come piacere personale.
La narrazione che stiamo adottando è ingannevole. E questo inganno, però, siamo noi stessi a pagarlo. Noi e le generazioni più giovani.
Stefano Monti
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