Il Ministero della Cultura si sta imbarcando nell’ennesima riforma. Ecco perché
Ad ogni Ministro, la sua riforma. Da moneta di scambio della politica, il gabinetto della cultura ha negli ultimi anni assunto un ruolo importante per i governi e l’opinione pubblica. Ciò però non l’ha salvato dalla mania riformista
Discorso complicato, quello delle riforme del Ministero della Cultura. Così tante, in così pochi anni, con così tante allusioni al Gattopardo che gli eredi Tomasi di Lampedusa si sentiranno probabilmente in dovere di inviare dei ringraziamenti ufficiali. A guardarle da fuori, tutte queste riforme, sembrano folli o, ed è forse anche peggio, senza alcuna utilità concreta né visione di medio o lungo periodo. La reiterazione di un fenomeno, tuttavia, è un’informazione di cui bisogna necessariamente tener conto.
Perché riformare il Ministero della Cultura?
Perché se ogni Ministro negli ultimi anni ha sentito l’esigenza di cambiare il Ministero allora delle due, l’una: o nelle sale del Ministero della Cultura utilizzano dei vaporizzatori che hanno l’effetto collaterale di convincere il Ministro che una riforma sia essenziale, oppure la riforma di cui sopra è realmente necessaria.
Proviamo dunque a fare un gioco: assumendo, per assurdo, che non abbiano drogato gli ultimi nostri Ministri, quali possono essere quelle condizioni che da un lato rendono così impellente l’esigenza di modificare la struttura organizzativa del dicastero e dall’altro, malgrado la loro significatività, sono del tutto invisibili all’esterno? Una domanda che apre a tantissime risposte differenti, è vero. Ma ce n’è una, in particolare, che in questi casi si avvicina quasi sempre alla realtà: le persone.
Facciamo qualche salto all’indietro e cerchiamo di guardare la vicenda in una prospettiva storica: fino a pochi anni, il Ministero (che continueremo a chiamare “della Cultura” per evitare di perderci nei dedali acronimi che si sono susseguiti negli anni), era un Ministero con scarso valore politico e con pochissime risorse. Una sorta di Ministero bonus, insomma, con pratiche di assunzione dal fortissimo valore ridistributivo, e con grandi correnti di fidelizzazione.
Ministero della Cultura: la svolta nella politica
Erano gli anni in cui non era impossibile entrare in un Museo accolti da un custode, seduto su una sedia di paglia, con canotta e macchia di sugo ad orpello. Erano anni in cui, entrare in un Museo, significava anche entrare senza permesso in un territorio chiuso agli occhi di visitatori che non fossero esperti del settore.
Poi, la svolta: il mondo ha scoperto l’importanza della cultura e il nostro sistema politico, pur con qualche ritardo, ha trovato finalmente una persona che fosse in grado di trovare una soluzione. L’affidamento delle concessioni a privati, che ha creato nei fatti un cambiamento. Un prima e dopo che è stato poi reso sempre più evidente negli ultimi anni a seguito del riconoscimento della parziale autonomia di alcuni tra i più importanti Musei statali del nostro Paese. A vederla con questa prospettiva, appare dunque chiaro quale possa essere il motivo per cui l’Autonomia di tali Musei resta parziale: toccatemi tutto, ma non il personale.
Cosa succede, negli anni, in un’organizzazione di questo tipo? Semplice, si creano correnti. Correnti che rispondono a logiche sinceramente ideologiche (in casi più rari) e opportunisticamente ideologiche; correnti legate a specifici leader, a posizioni politiche o partitiche. Si creano gruppi, e tra gruppi, si creano ruoli. E i ruoli conferiscono potere.
Il binomio cultura e turismo
Un potere molto spesso informale, sancito dall’appartenenza o meno ad una corrente politica o, come spesso accade, conferito sulla base del carisma o della simpatia. Nulla di nuovo: qualsiasi organizzazione che non sia gestita secondo dei determinati criteri, tende ad assumere una configurazione di questo tipo.
Ritorniamo a tempi più recenti: l’espansione del concetto delle Industrie Culturali e Creative, l’affermazione del binomio “cultura + turismo” con tutte le evidenti ricadute sul piano economico e sul piano occupazionale, il contestuale ridimensionamento di alcune industrie, un tempo a più alto valore aggiunto, il crescente numero di studenti e, successivamente, di professionisti, che non trovando alternative, ha avviato la nascita di economie correlate alla cultura, il riconoscimento internazionale della cultura italiana come brand, la progressiva dismissione, verso capitali esteri, di alcune delle industrie più importanti del made in Italy e del rilevante patrimonio immobiliare.
Tutti questi elementi fanno sì che oggi, almeno due volte a settimana, elementi che un tempo non sarebbero finiti su alcun giornale, trovano spazio nelle prime pagine dei quotidiani.
L’organizzazione del Ministero della Cultura
In questo mutato contesto, è evidente che una struttura, che qualche tempo fa, per scherzo (ma non troppo) la si poteva definire come l’ultimo baluardo bolscevico del nostro Paese (non per bandiera, ma per logica), presenti delle caratteristiche che ne rendono il funzionamento tendenzialmente inadeguato.
Nel telefono senza fili, la distorsione del messaggio iniziale a volte accade perché, effettivamente, nel passaggio da un bambino all’altro, il messaggio viene naturalmente distorto. In altre occasioni tale distorsione è però volutamente esasperata da qualche bambino che, per vedere cosa ne uscirà alla fine, pronuncia parole incomprensibili.
Un ministero non è un telefono senza fili. È un’organizzazione in cui la catena decisionale richiede un forte coordinamento. Questo coordinamento può essere minacciato da due elementi principali: una generale disorganizzazione, causata dall’interazione tra persone con differenti competenze, e dall’altro un attrito, determinato da una serie di rendite di posizione e favorito da uno scarso potere contrattuale che il datore di lavoro può avere nei riguardi del dipendente.
Ministero della Cultura: la questione del bilancio
Probabilmente, il nostro Ministero della Cultura presenta entrambi questi elementi. E diviene difficilissimo, nell’arco di un mandato politico, tentare di cambiare le regole del gioco. Si può però cambiare le carte in tavola. E lo si fa cambiando la struttura e il funzionamento dell’organizzazione, dando maggiore potere decisionale a persone che mostrano una coerenza di mandato, e riducendo il peso di coloro che invece rappresenterebbero una corsia a velocità ridotta.
Si spiegherebbero così le varie riforme che si sono susseguite nel tempo, e acquisirebbe anche maggiore senso la scelta di moltiplicare, qualora quanto anticipato dai giornali venisse poi realmente applicato nella prossima riforma del Ministero, le poltrone da attribuire a persone di fiducia.
Una regola del gioco, quindi. Che però è destinata ad autoalimentarsi. Nel tempo saranno necessarie sempre più poltrone per superare il numero di attriti. E non basteranno, probabilmente, le nuove assunzioni. Il rischio, dunque, è che una parte sempre più consistente del bilancio del Ministero vada a coprire i costi di struttura (quelli del personale, degli incarichi, e via dicendo) e una sempre minore quota sia invece destinata a ciò che il ministero, in fondo, dovrebbe garantire: lo sviluppo culturale, sociale ed economico del nostro Paese, attraverso la leva della cultura.
Perché è per quello che esiste, il Ministero. Non è che i cittadini paghino le tasse soltanto perché il Ministro di turno abbia potere nel proprio orticello.
Stefano Monti
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