Resort-Italia: l’immaginario sintetico del nostro Paese nell’estate 2023
Qual è l’immagine dell’Italia che viene fuori dall’estetica del resort? Tra VeryBello e Open to Meraviglia, il prodotto confezionato per il turista straniero offre una esperienza confusa del nostro Paese. E il territorio non ne beneficia
L’estate del caro prezzi – dei titoloni sui giornali e delle inchieste un po’ frettolose, delle comparazioni tra caffè a sessanta euro e ombrelloni proibitivi, dei 2 euro in più per il toast condiviso e del conto per le tigelle che supera gli 800 euro – segnala che, come peraltro è avvenuto in altri campi e settori della vita collettiva, anche nel turismo tutte le speranze e i propositi di rigenerazione post-pandemia sono andati velocemente e bellamente a farsi benedire.
Il resort-Italia: da VeryBello! a Open to Meraviglia
Il ‘livellamento verso l’alto’ dei prezzi è innanzitutto il riflesso di un atteggiamento abbastanza predatorio, di una volontà un pochino oscena di spennare il turista ad ogni costo. Ma questo fenomeno andrebbe forse analizzato sotto un altro aspetto, che passa magari più in sordina e che risulta meno evidente, ma che in fin dei conti rivela la trasformazione più profonda (e, sotto certi aspetti, più imbarazzante).
Qual è infatti l’immagine dell’Italia che viene fuori dall’estetica del resort proposta in maniera così ossessiva? È un’immagine che, in fondo, ha molto poco a che fare con qualunque nozione di autenticità e di identità del nostro Paese. D’altra parte, se ci pensiamo, essa è frutto di un percorso molto lungo, durato almeno dieci-quindici anni, ed esemplificato a livello istituzionale da campagne come VeryBello! e Open to Meraviglia. Esattamente come quei siti e quei titoli, infatti, nel resort-Italia ai ricchi globali si offre un prodotto facilmente e velocemente consumabile, che sintetizza più aspetti insieme e li rende soprattutto assimilabili attraverso l’equivalenza (very-bello, open-meraviglia).
Il resort-Italia è l’esperienza dell’Italia?
Così, per esempio, nel resort tipo il turista-cliente può fare innanzitutto un’esperienza dell’Italia che, per dirne una, dell’esperienza conserva decisamente pochi tratti: viene rinchiuso lì dentro e molto difficilmente ne uscirà, insieme alla sua famiglia, prima della ripartenza. Perché uscire, infatti? Lì dentro si è al riparo dagli scocciatori che sono “gli altri” (i quali vengono ovviamente e categoricamente tenuti fuori dallo spazio dolcemente concentrazionario che è il resort): possiamo andare in spiaggia, in piscina, al centro benessere senza dover uscire mai.
Soprattutto, possiamo andare al ristorante, dove ci viene proposta una strana e francamente irriconoscibile versione della cucina italiana, che intrattiene rapporti molto tenui con il cibo locale e che rappresenta una maldestra, inverosimile fusione tra cucina italiana e anglosassone/internazionale. Alla fine, pur di andare incontro ai gusti dell’ipotetico turista straniero con le tasche piene di soldi, anche il piatto entra in confusione. Confusione che, nel tentativo di essere aggirata, viene addirittura accentuata da soluzioni stravaganti come l’aceto balsamico nell’olio da accompagnare col pane (mah!), che puntano proprio a sommare più esperienze chiaramente inconciliabili e incommensurabili, con il risultato di annullarle entrambe.
Il resort concentrazionario volto al consumo
L’allentamento indefinito dei rapporti con il territorio si verifica su ogni altra scala: non esco praticamente mai per tutta la durata della vacanza, e ogni eventuale uscita avviene in forma di ‘escursione’ – proprio come ci si trovasse su una nave da crociera. Quindi, anche la scoperta di ciò che c’è intorno al recinto avviene di fatto nel campo del consumo (non di quello dell’esperienza). La caratteristica principale di questi luoghi è, infatti, la totale separazione rispetto al paese o al borgo a cui in teoria appartengono – anche a livello economico: sono delle vere e proprie enclave.
Il principale risultato di questa operazione (che ha richiesto anni e anni, e che solo questa estate probabilmente si sta manifestando in tutta la sua maestosità), oltre naturalmente a quello di aver fatto scappare altrove una buona parte degli italiani che una vacanza se la possono ancora permettere, è quello di una sottile e inquietante sostituzione, sul modello di un romanzo di Philip K. Dick.
Il turismo italiano sul modello di Philip K. Dick
Invece dell’Italia con tutti i suoi difetti, le sbrindellature, gli imprevisti ma anche le sorprese che il viaggio riserva, un posto sintetico e sintetizzato, una Italy immaginaria e materializzata, in cui il paesaggio e ogni altra dimensione condensano per lo straniero danaroso gli aspetti principali del nostro Paese (laddove principali sta per: riconoscibili, già mediati, già digeriti attraverso serie tv, articoli, stories su Instagram, film – un po’ meno spesso libri, ormai – e quindi non solo semplificati ma ipersemplificati), e in cui soprattutto ogni elemento e ogni momento viene organizzato e programmato, per essere più facilmente venduto e consumato.
Che fine ha fatto in tutto ciò l’altra Italia, quella più difettosa e non ammissibile nel regno del resort? E, soprattutto, esiste ancora? Queste sono due altre belle domande.
Christian Caliandro
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