La risposta al turismo di massa sta nei territori. Che non sono luna park
Il territorio è ciò che siamo, non un luna park disimpegnante da mettere a reddito. Un vitale generatore di cultura in opposizione alla logica del turismo basato sui numeri. L’opinione di Gabi Scardi
Il flusso di turisti incontenibile nel numero, e talvolta nei modi, che questa estate ha travolto alcune aree del Paese fino a mandarle in crisi, è parte di un fenomeno di portata globale che si presta alle più ampie e sfaccettate considerazioni.
Il turismo classista
L’idea di turismo può essere osservata da molti punti di vista. Può essere senz’altro correlata, tra l’altro, alla questione di una mobilità intesa in molti casi come simbolo di stato sociale più che come possibilità di scoperta e esperienza di conoscenza; alla velocità come paradigma del presente e quindi alla fruizione superficiale di luoghi e situazioni che invece meriterebbero rispetto e attenzione; a una forma di bulimia che porta a un’offerta di attività di intrattenimento fatte per riempire ogni momento, con una pletora di eventi che vengono presentati come culturali senza esserlo, e che finiscono per viziare il gusto generale.
Ma credo che molto utile sarebbe anche riflettere su un’idea raramente messa in discussione: quella che vede nel territorio e nella sua cultura anzitutto una risorsa da sfruttare, offrendola al consumo altrui.
Questa idea tende ad accompagnarsi con criteri di misurazione prettamente quantitativi, dati i quali i visitatori diventano fondamentalmente categoria; persone non da individuarsi, ma da contarsi.
L’equivalenza tra turisti e numeri
Naturalmente per raggiungere un’intera categoria al di là delle differenze occorre fare ricorso a messaggi meno connotati possibile: magari seduttivi, intriganti, ma generici. A questo punto l’immagine del Paese che si trasmette è forzatamente legata a luoghi comuni, allo svago modello base o a icone già rodate; tutto questo nella cornice di tecniche di marketing e di promozione incentrate per lo più sulla godibilità facile e immediata.
Sono nati, per questo, un vocabolario ad hoc, da branding a “eccellenza” (per quanto riguarda quest’ultimo termine, sembra completamente assente l’idea che il carattere di eccellenza vale se attribuitoci da altri, non quando ce lo conferiamo da noi). E uno stile di comunicazione: in tal senso non si può dire che il tenore del “VeryBello!” di Franceschini disti molto dalla più recente Venere testimonial di un’“Italia Open to Meraviglia” con tanto di traduzioni maccheroniche e strafalcioni vari. Ma di questo è già stato scritto abbondantemente.
Va aggiunto che l’effetto di una sconfortante comunicazione rischia di moltiplicarsi esponenzialmente quando si accompagna con un senso d’incuria rispetto al patrimonio e all’ambiente.
La comunicazione turistica istituzionale
Un ambiente curato, che rivela attenzione e riguardo quotidiano da parte di chi lo abita, tende sempre ad incutere rispetto. Incuria, banalità e sciatteria, al contrario, legittimano il disimpegno da parte di chi arriva.
Sta di fatto che un paese che si auto mortifica con una comunicazione incongrua dando tra l’altro per scontato di rivolgersi a un pubblico sprovveduto e presentandosi come una serie puntiforme di viste da cartolina o da sito di agenzia, e connotandosi per di più per una diffusa mancanza di accuratezza nella propria gestione, e dando in troppi casi la sensazione di voler sfruttare senza scrupoli i visitatori, non si può stupire troppo dell’eventuale loro comportamento crasso, né di alcuni – peraltro gravissimi – atteggiamenti di appropriazione.
Ritengo che sarebbe importante invece partire dall’idea che il territorio, nella sua complessità, non è qualcosa da mettere a reddito, ma è ciò che siamo e che esprimiamo. Secondo questo approccio esso non può essere l’oggetto di un’“offerta turistica”, ma è un insieme di luoghi abitati, amati, di cui sta a cuore anzitutto la vivibilità e di cui si cura ogni parte e ogni aspetto – non solo il centro o le vie principali. Cito qui Joan Tronto e Berenice Fisher: prendersi cura è ‘‘ogni cosa che facciamo per mantenere, accudire e riparare il nostro ‘mondo’, così da poterci vivere il meglio possibile”.
Il territorio come chiave e come risorsa
Posti che rispecchiano un senso di cura così intesa non sono luna park né depositi di un glorioso passato da sfruttare al massimo, ma vitali generatori di cultura, sedi di un patrimonio diffuso, in cui si vive una compresenza di passato e di presente, e anche un’aspettativa di futuro; luoghi da presentare con orgoglio nella convinzione che ogni angolo, “iconico” o meno, abbia dignità e significato, e valga la pena e il tempo di essere conosciuto. Questo è a maggior ragione importante se si pensa che l’Italia è un paese che nei piccoli centri vede la propria caratteristica e nel passato l’archivio di senso da cui trarre la capacità di avanzare confrontandosi con il mondo globale: una specificità da valorizzare.
Credo che guardare al di là dell’idea di turismo e riattivare una tale percezione del territorio potrebbe non solo stimolare un maggiore rispetto da parte di chi arriva, ma anche contribuire a un modello di ospitalità meno fragile, capace di attirare flussi meno concentrati nel tempo, più diffusi sul territorio e più gestibili, diversi – meno avvilenti – sotto il profilo delle aspettative, delle richieste e degli atteggiamenti.
Gabi Scardi
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati