Luci e ombre del nuovo ddl Made in Italy
Il nuovo disegno di legge sul Made in Italy, discusso in questi giorni in Parlamento, riguarda anche le Imprese Culturali e Creative. Ecco cosa potrebbe cambiare, nel bene e nel male
Via libera della Camera dei Deputati al ddl per la valorizzazione, la promozione e la tutela del Made in Italy. E aspettando il voto in Senato, va detto che finalmente anche nel nostro Paese un provvedimento nella politica industriale tratta la materia delle Imprese Culturali e Creative.
Sì perché, ad esempio, dopo anni di attesa (e colpevole ritardo) nella normativa di riforma, finalmente si supera il cappio dei codici ATECO, istituendo un registro delle imprese ad hoc tenuto presso il sistema camerale e con l’istituzione di un albo delle Imprese Culturali e Creative di interesse nazionale tenuto presso il Ministero della Cultura. Inoltre, per la prima volta si parla di disposizioni specifiche in materia di fiscalità con il credito d’imposta, anche attraverso l’istituzione di “zone franche della cultura” dove si potrebbero concentrare programmi di defiscalizzazione per la creazione di micro e piccole imprese; e bene anche l’innovazione nella modifica dell’articolo 115 del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio, in cui si prevede di aggiungere alle tradizionali forme di gestione delle attività tipiche di valorizzazione dei beni culturali di appartenenza pubblica (gestione diretta e indiretta) anche le forme speciali di partenariato con enti e organismi pubblici e con soggetti privati.
Le criticità del ddl Made in Italy per il settore culturale
Ma se fin qui le cose paiono funzionare, non è tutto oro quel che luccica, e alcune novità perplimono: la prima riguarda proprio la modifica dell’art 115 del Codice, che introduce l’appalto come strumento per la gestione indiretta e che sostanzialmente trasforma d’ufficio in appaltatori quelli che erano concessionari. La seconda riguarda la “valorizzazione economica dei marchi museali”: difatti il ddl Made in Italy contiene anche una norma importante, che ha un impatto diretto per i musei e indiretto per le Imprese Culturali e Creative. L’articolo 17, infatti, prevede che gli istituti e i luoghi della cultura possono registrare il proprio marchio. Si aprono, quindi, nuove possibilità commerciali e operazioni in stile Louvre Abu Dhabi e Victoria Albert Museum a Shenzhen per i grandi musei italiani come il Colosseo o le Gallerie degli Uffizi. Anche questo articolo meriterebbe una modifica, in quanto il comma 2 prevede che “le somme allo scopo erogate, previo versamento all’entrata del bilancio dello Stato, sono riassegnate con appositi decreti del Ministro dell’Economia e delle Finanze, sui pertinenti capitoli dello stato di previsione della spesa del Ministero della Cultura”, e ciò è in contrasto con la normativa dei musei dotati di autonomia speciale e le fondazioni museali che trattengono nel proprio bilancio le entrate derivanti dalle loro attività.
Di cosa ha bisogno il settore culturale in Italia?
Quindi bene ma non benissimo… già perché nessuna voce rimanda a qualche intervento (strutturale) sulle molte priorità che limitano lo sviluppo del settore, alcune ataviche e da decenni insolute. Ad esempio:
- Il riconoscimento e riordino delle professioni del settore culturale;
- La possibilità di detrarre le spese culturali;
- Il rifinanziamento del Fondo Cultura e la reintroduzione del 2×1000 alle associazioni culturali;
- L’ampliamento dell’ArtBonus al 105%;
- La definizione di un contratto unico per il settore Cultura che preveda equità di genere e retributiva;
- La regolamentazione del lavoro estemporaneo e stagionale culturale, creativo e turistico;
- Il passaggio dalla privatizzazione alla partecipazione (e partenariati – PPP e PSPP) nella gestione e valorizzazione del patrimonio;
- L’adeguamento della normativa nazionale in materia di accessibilità digitale e “open access”.
Quisquilie ancora in sospeso e che forse vedremo risolte nella prossima stagione…
Massimiliano Zane
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